Negli anni Settanta operavano nel mondo poco più di settemila imprese multinazionali. Oggi siamo arrivati ad un numero che supera le centomila unità. Cosa è successo nel sistema economico internazionale? Quali sono le ragioni che hanno condotto ad una crescita così robusta delle imprese di grande dimensione che operano contestualmente su più mercati?
La globalizzazione, guidata dal decentramento e dalle esternalizzazioni, ha trasformato in profondità il modello di produzione. Prima la grande fabbrica era attorniata dai suoi principali fornitori, formando la cittadella manifatturiera. Poi, questo modello è stato superato dal sistema dei distretti industriali, un insieme territoriale di industrie omogenee di piccola e media dimensione che si agglomerava in un territorio caratterizzato da una elevata specializzazione, distintiva per le competenze della forza lavoro e per le qualità degli imprenditori.
Poi, il mondo è cambiato ancora una volta. La ricerca di economie di costo e di profitti crescenti, nella fase del capitalismo degli azionisti e della finanza, ha condotto alla frammentazione quasi minuziosa dei processi produttivi, generando quello che è stato definito il processo di costruzione delle catene globali del valore.
Gli stabilimenti si sono diffusi sul territorio mondiale e si sono prevalentemente decentrati nei Paesi di nuova industrializzazione, dove il basso costo del lavoro, la semplificazione delle regole amministrative, i vantaggi fiscali e le zone economiche speciali avevano intanto creato l’ambiente opportuno per i nuovi investimenti delle aziende multinazionali. Il capitalismo delle piattaforme, della mobilità e della digitalizzazione ha fatto il resto.
I mercati sono diventati un’arena globale nella quale gli Stati hanno cominciato a competere per attrarre sui propri territori le grandi multinazionali, con l’obiettivo di accelerare il processo di industrializzazione e di modernizzazione.
I diritti dei lavoratori si sono ristretti, mentre sono cresciuti a dismisura i profitti delle grandi imprese.
I processi di concentrazione industriale hanno operato, in diversi settori di attività economica, per consolidare il potere di mercato delle multinazionali, che hanno strutturato le catene di approvvigionamento e di fornitura con l’obiettivo di trarne il maggior valore possibile.
Siamo tornati sostanzialmente alla situazione di inizio del ventesimo secolo, quando i grandi monopolisti avevano assunto un potere sconfinato, soprattutto nell’economia nordamericana, al punto tale da determinare la reazione del potere legislativo che, con lo Sherman Act, avviò la stagione della disciplina antitrust.
Oggi le regole nazionali sulla concorrenza non funzionano più, proprio perché i mercati, e le imprese multinazionali, si sono strutturati secondo modelli organizzativi ed operativi su scala transnazionale.
Una prima timida reazione degli Stati si è espressa di recente con l’accordo teso a stabilire il principio della minima tassazione al 15% del reddito di impresa: si era giunti a livelli di elusione fiscale davvero insostenibile da parte delle grandi conglomerate dell’economia contemporanea.
Si tratta però solo di un primo, timido, passo verso la costruzione di una nuova disciplina transnazionale che regolamenti le attività di impresa su scala globale. Molto resta da fare.
Le concentrazioni di potere, che oggi sono un tratto caratteristico del modello industriale in questo inizio di ventunesimo secolo, richiedono ulteriori meccanismi che possono essere efficaci solo su scala transnazionale.
Pensiamo ad esempio al settore marittimo del trasporto container che, nel 2021, vedrà le prime quattro aziende del settore totalizzare utili superiori ai 100 miliardi di dollari, in un anno nel quale i noli dei container stanno registrando incremento unitari, in funzione delle differenti rotte, che variano dal triplo al decuplo delle tariffe che si sono registrate nel 2019.
Aumenti di prezzo di queste entità sono destinati a non restare circoscritti entro il sistema del trasporto marittimo, ma rischiano invece di determinare effetti inflazionistici sulle economie, in quanto il dislivello di costo del trasporto comincia ad essere tale da riflettersi sul prezzo dei beni finali in vendita al pubblico.
Ci troviamo in un passaggio stretto e difficile per il futuro dello sviluppo economico internazionale. Siamo usciti da due gravi crisi economiche, quella dei mutui sub prime nel 2007-2008 quella dei debiti sovrani nel 2012-2013, seguite a valle dalla più recente crisi pandemica, che ancora condiziona le traiettorie di molti settori, fortemente condizionati dai blocchi di produzione e dalle crisi di domanda.
Questi tre sconvolgimenti nella struttura economica mondiale hanno generato un ulteriore rafforzamento dei poteri di mercato dalla parte delle grandi imprese, per effetto dello spiazzamento che ha colpito le imprese di dimensione minore, caratterizzate da una inferiore capacità di investire nelle innovazioni e dalla difficoltà a cogliere le economie di scala e di scopo.
L’Italia deve reagire ad una lunga fase di stagnazione, avendo fatto registrare negli ultimi decenni un tasso di crescita largamente inferiore alle medie comunitarie.
I primi segnali indicano una buona reattività dell’economia italiana nello scenario post-pandemico. Resta però la necessità di attrarre investimenti produttivi di imprese di grande dimensione nel nostro Paese, se possibile in particolare nelle regioni meridionali che ancora faticano a superare un periodo di allargamento della forbice in termini di reddito e di produzione industriale rispetto al resto del Paese che ormai dura dagli anni Ottanta del secolo passato.
Le zone economiche speciali, istituite nel Mezzogiorno ormai da qualche anno, potrebbero essere una opportunità per attirare investimenti produttivi di qualche multinazionale: le misure di vantaggio fiscale, che magari possono ancora essere migliorate, i provvedimenti di semplificazione normativa, che devono diventare pratica amministrativa, e la oggettiva ripresa di fiducia sul futuro dell’economia italiana possono essere un viatico per raggiungere questo obiettivo. Servirebbero ancora due ingredienti: una stabilità di medio termine del quadro politico ed una governance finalmente completa delle zone economiche speciali che sono state costituite.