Nei pressi dell’attuale Piazza Municipio, dominata oggi ancor di più dalla mole del Maschio Angioino, dopo la recentissima sistemazione urbanistica – un filino troppo algida in verità e, soprattutto, senza Verde urbano che rifreschi almeno la vista del visitatore che viene dal Porto – sopravvivono le tracce della Napoli aragonese.
E’ la Napoli che fu, tra l’Umanesimo e il Rinascimento, una delle capitali del Mondo civile.
Da ogni parte d’Italia, dall’Europa, e non solo, si guardava al verbo nuovo del “savoir vivre”, marchiato Napoli. E giovani nobiluomini, come gli estensi fratelli Ercole e Sigismondo d’Este, venivano a Napoli per ricevere l’educazione “cortese”, attirati soprattutto dal desiderio di apprendere l’abilità e l’eleganza dei cavalieri aragonesi.
Insomma Napoli era considerata la tappa ideale per la formazione del gentiluomo ideale dell’età moderna, quel “Cortegiano” descritto poi da Baldassarre Castiglione.
Le tracce di questa grande storia della Città di Napoli – purtroppo sopravvissute a brandelli nel tessuto urbano moderno – sono in questo caso, tracce… equestri, legate cioè alla Cultura del Cavallo a Napoli. Cultura: molto più che una moda passeggera, per intenderci
C’è chi afferma – tra gli storici del costume – che la Napoli cinquecentesca fu una “Società a cavallo”, in cui tutti amavano l’equitazione e c’era chi, anche tra i nobili di ogni rango, per amore del proprio cavallo eseguiva direttamente gli interventi di mascalcìa.
La Mascalcìa è l’arte della ferratura degli zoccoli degli equini, affidata normalmente a fabbri-maniscalchi. Saper ferrare il proprio cavallo, dunque, era un onore e un privilegio da esibire.
Ebbene, in contiguità con l’area portuale – nei pressi della attuale Caserma Zanzùr – là dove erano ubicati i vecchi Arsenali navali dell’antico Porto “interno”, poi obliterate, vi era un’ altra strada, frequentatissima dalla nobiltà e dalla plebe, dal nome significativo e semantico.
Era la Via del Piliéro, strada ampia e dritta, adatta a corse o parate di cavalli e cavalieri, ricavata ai margini della vecchia spiaggia del porto antico.
Alla Via del Piliéro portavano tre stretti vicoli, detti Vicoli del Piliéro, ovviamente.
Con il termine “Piliéro” era indicato il palo verticale, alto e dritto, infisso al suolo, intorno al quale si addestravano i cavalli. Il piliero, inventato e usato a Napoli, prima che in ogni altra parte del mondo, era quasi l’emblema concreto e simbolico dell’ addestramento dei cavalli dell’Alta Scuola equestre napoletana.
La Via del Piliéro fu però cancellata dalla antica geografia urbana della Napoli aragonese, ove ricorreva come toponimo, a ricordo duraturo della tradizione equestre.
Anche la Via del Piliero – in parte oggi coincidente con il tracciato di Via Cristoforo Colombo e in parte rimasta inglobata nell’area portuale, con la sua trama dei vicoli omonimi, è stata però cancellata, insieme con il contesto urbano quattrocentesco, in occasione dei Lavori del Risanamento del Quartiere Pendino, un’area urbana che prendeva il nome dalla dolce pendenza con cui portava al mare.
Ora il termine Piliero non esiste più in quel sito, ma sopravvive nella lingua napoletana, a dimostrazione del fatto che le parole durano più delle pietre. Oggi è desueta l’espressione: “‘o sìcco pilièro” – con le “o” finali evanescenti, come vuole la lingua napoletana – che era la definizione destinata agli spilungoni. Per i napoletani con I capelli grigi è però familiare.
Sopravvive ancora all’interno dell’area portuale una Calata del Piliéro, un tempo una striscia di banchina molto stretta, con un ponticello tra la palazzina borbonica della “Immacolatella vecchia” – fatta costruire da don Carlos di Borbone – e la Chiesetta di S. Maria di Portosalvo.
Era là il largo del Mandracchio, originariamente un bacino interno di acque chete, poi colmato, cui si accedeva dal mare sottopassando un ponte molto ribassato, il quale con la sua geometria angusta scoraggiava traffici di contrabbando con battelli voluminosi.
Nell’antistante spazio verde della chiesetta, un tempo confinante con lo specchio d’acqua del Mandracchio, fu collocato il grazioso “Obelisco della Marùzza” nell’anno 1799 al termine della tragica esperienza della Repubblica Partenopea. Si commemorò così il ritorno dei Borbone a Napoli, appena si fu chiusa la parentesi fratricida.
E’, insomma, la grande Napoli aragonese che, nonostante tutto, sopravvive ancora nella Napoli d’oggi, dopo secoli dalla più bella stagione della propria storia tumultuosa da “cavallo sfrenato e rampante”, cui spesso è stata paragonata.