Domenica 27 maggio, ore 20.30, guardo, come è mio solito, la trasmissione Che tempo che fa, all’improvviso Fazio annuncia che Luigi Di Maio vuole intervenire in diretta.
Non nascondo che ho avuto paura. Ho temuto un golpe, un attacco allo Stato. Per fortuna non era così, anche se, nei toni di Giggino, si avvertiva una rabbia ed una violenza che avrebbero potuto scatenarsi da un momento all’altro.
La messa in stato d’accusa del Presidente Mattarella per aver commesso illeciti nell’esercizio delle sue funzioni (l’impeachment, o come dicono i social impichment, impicment, passando per la forma più originale impingement), è stata proposta agli italiani, che seguivano la trasmissione, con un linguaggio semplice, diretto, estremamente comprensibile anche se non supportato dalla necessaria conoscenza della legge in materia.
Ma la padronanza del problema, la preparazione sull’argomento, l’umiltà di studiare prima di esporsi a clamorose figuracce, non appartiene ai giovani politici.
Il giorno dopo, Di Maio e Salvini sono andati ospiti nel salotto televisivo di Barbara D’Urso per spiegare agli italiani come, secondo loro, erano andate le cose. Non a caso la D’Urso ha invitato i suoi ospiti ad essere semplici e diretti, a parlare come se si rivolgessero ad uno del popolo.
Decine sono stati, poi, i video postati da Di Maio sulla sua pagina Facebook in un dialogo ininterrotto con la piazza virtuale.
Ma come è cambiato il linguaggio della politica? Per convincere qualcuno bisogna adottare il suo linguaggio e poiché ci si rivolge prevalentemente ai giovani la sintassi diventa paratattica, poche subordinate, il lessico semplice ed immediato, magari con preferenza per il gergo, i concetti immediatamente fruibili. Niente a che vedere con le antiche tribune politiche che annoiano, ma che in fondo annoiavano anche noi ragazzi di una volta: la politica si fa nelle piazze reali o virtuali e nei talk show.
Con questo approccio linguistico, oggi, chiunque può fare il politico: il discorso si mantiene a livelli di generici proclami che possono essere immediatamente smentiti, dato che non sono sorretti da una struttura argomentativa, né da una approfondita conoscenza del problema in questione. Chi bazzica il mondo della scuola o per lavoro o per essere genitore, sa quanto sia difficile insegnare a costruire un saggio argomentativo: i ragazzi vogliono urlare le proprie idee e poco se ne importano che qualcuno possa sostenere un’antitesi che risulta difficile confutare, perché bisognerebbe mettersi nei panni dell’avversario e vedere, con gli occhi dell’altro, la forza della propria tesi.
Questa lunga epocale crisi politica, che ci ha tanto preoccupati, ha segnato, di fatto, la nascita di una nuova repubblica non nei contenuti, ma nel linguaggio, non più il politichese, ma un codice comunicativo breve e semplificato perché possa essere immediatamente recepito, senza perdere troppo tempo.
Il successo dei populismi nasce anche dall’aver scavalcato le tradizionali forme di comunicazione politica attraverso l’uso massiccio di Facebook e di Twitter, con messaggi che possono dire tutto ed un attimo dopo il contrario di tutto, per la mancanza di memoria di ciò che, un attimo prima, si è detto.
Perché Di Maio, dopo quello che aveva detto domenica, ha potuto, qualche giorno dopo, stringere la mano a Mattarella? Perché la velocità dell’informazione sbiadisce rapidamente il passato, lo sbianchetta nei toni.
Il cambiamento nell’uso del linguaggio ha ancora un’altra conseguenza: chi parla in maniera diversa, più complessa, diventa il nemico, l’oppositore, chi si fa forte della propria cultura per ingannare il popolo.
I cosiddetti intellettuali vivono un momento di difficoltà e rischiano l’esclusione dalla comunicazione.
Non è una situazione solo italiana, l’America ha sperimentato prima di noi il cambiamento. Trump, in tutta la sua campagna elettorale ha usato in maniera massiccia i social, sovvertendo i canali tradizionali. Il popolo dell’America rurale, non quello delle grandi città, è stato immediatamente coinvolto e, del resto, anche ora, l’approccio del Presidente ai temi politici, pur controverso, funziona.
Il cambiamento della comunicazione è, quindi, globale, frutto di un rifiuto diffuso della vecchia politica e dei partiti, in nome di una partecipazione senza mediazione. E’ il processo di mediatizzazione della politica che segna il passaggio dalla vecchia alla new politics.
Ne siamo soddisfatti? Avremmo potuto noi adulti arginare questo processo? Io me lo domando e voi?
di Piera De Prosperis