Guardiamo al mondo che ci siamo lasciati indietro, mentre siamo qui a preoccuparci della crisi energetica, della siccità e del cambiamento climatico, del Covid e, soprattutto, della guerra in Ucraina che di fronte a tutti questi problemi ci sembra il massimo dell’assurdità.
Siamo passati nel giro di pochi giorni e da un clima di interdipendenza globale ad uno scenario di Guerra Fredda.
Di fatto, questo mondo interconnesso, a cui ci eravamo abituati da quasi un trentennio, aveva cominciato a perdere colpi con la presidenza Trump e con la Brexit. Tuttavia, l’idea di collaborare con la Russia, di approfittare del suo gas a costi sempre decrescenti ci pareva sensata e non ci accorgevamo del cappio che stavamo stringendo al nostro collo. Nel frattempo ci sforzavamo di non fare caso alle ambizioni espansive della Russia, al continuo lavorio ai nostri danni che veniva portato avanti sotto i nostri occhi, con il sistematico appoggio ai partiti antisistema che prosperavano nelle nostre società.
L’invasione dell’Ucraina ha squarciato questo velo che ci impediva di vedere il menu alternativo che ci stava preparando la Russia. Un menu che aveva come obiettivo la finlandizzazione degli stati europei e che passava per prima cosa per lo svuotamento dall’interno dell’Unione Europea e, parallelamente, per l’indebolimento della NATO, per effetto dell’attrazione nell’orbita russa di membri fondamentali come la Germania, come di altri quali l’Italia.
L’invasione dell’Ucraina, forse anticipata da Putin precipitosamente in risposta all’azione degli USA, ha esposto questo disegno strategico costringendoci a prendere atto di una realtà che, per quanto sgradevole, ci obbliga ad un’economia di guerra, o quantomeno ad un confronto globale, che le società europee faticano ad accettare come inevitabile.
Di qui la ricerca di improbabili terze vie, di qui la sfiducia nelle classi dirigenti, di fatto un’onda lunga della politica espansionistica condotta sotto traccia dalla Russia negli anni passati.
Ma la storia ci insegna che la pace con l’aggressore la si può cercare soltanto quando questo si sarà convinto dell’impossibilità di ottenere di più. Altrimenti non di pace si tratta, ma di capitolazione.
Questo tipo di confronto ha dei tempi lunghi: nelle nostre democrazie abbiamo una piena visione dei costi che dobbiamo sopportare e ne dibattiamo apertamente. Vediamo gli effetti dei colpi subiti, ma non vediamo quello dei colpi che stiamo dando. Nelle dittature le battaglie perse possono essere facilmente nascoste dalla propaganda e non si palesano se non di fronte a un completo tracollo.
Non dobbiamo dunque sentirci smarriti nell’incertezza sul futuro. Con l’invasione dell’Ucraina i ponti sono stati tagliati dietro di noi: non possiamo tornare indietro; dobbiamo affrontare le durezze della sfida con la motivazione che ci viene dalla consapevolezza che stiamo difendendo la nostra stessa libertà che, ci piaccia o no, è ciò che Putin vorrebbe portarci via.
Nel pieno della guerra, Churchill esortava il paese: “combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle zone di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline”.
Dobbiamo acquistare la stessa determinazione: il passato non torna più: stiamo difendendo il nostro futuro.
Questo cambio di configurazione non è un processo rapido, ma abbiamo già fatto parecchia strada nei mesi scorsi e ce la faremo a riadattare le nostre economie a questa nuova realtà.