Gli imperialismi occidentali e le logiche orientali del potere si sono confrontati, ormai da tempo immemore, nell’aspro territorio dell’Afghanistan. La storia di questi conflitti è raccontata con grande efficacia nelle sue origini da Peter Hopkirk ne “Il grande gioco”, formula efficace utilizzata da Rudyard Kipling riprendendo una espressione utilizzata per primo da un ufficiale dell’esercito britannico, Arthur Conolly.
Le spinte espansive russe si scontravano nel diciannovesimo secolo con l’Impero inglese, nella cerniera che collegava l’India con l’Asia centrale. Questa caratteristica di eterodirezione è rimasta nella storia politica dell’Afghanistan contemporaneo. Il morente colosso sovietico invase, nel 1979, l’Afghanistan proprio per cercare di reagire alle sue difficoltà interne esportando la sua volontà di potenza, come spesso accade alle dittature in crisi. L’India fornì il suo appoggio diplomatico a Mosca. Per fare argine all’espansionismo sovietico, gli Stati Uniti a quel punto strinsero un patto di ferro con il Pakistan, ingombrante potenza regionale, che aveva una naturale affinità storica con i Talebani. Nacque un’alleanza strategica che era destinata a segnare l’inizio del ventunesimo secolo. Dieci anni dopo, i sovietici furono costretti alla ritirata contro un esercito di tribù sostenuto dalle armi e dalla diplomazia statunitense.
Però, preso il potere, i Talebani mostrarono al mondo il doppio volto ancora non conosciuto in Occidente: un estremismo islamico sunnita particolarmente radicale, con una ferocia contro tutte le altre culture ed una condizione della donna particolarmente umiliante. Non era ancora però chiaro l’elemento che avrebbe condizionato le relazioni internazionali: l’alleanza con i terroristi di Al-Qaeda. Una efficace sintesi di questi eventi sta nel libro di Tim Marshall, “Le dieci mappe che spiegano il mondo”.
Due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, il Leone del Panjshir, Massud, fu ucciso in un attentato suicida da parte di due terroristi. Il mandante sarebbe diventato famoso poche ore dopo, era Osama Bin Laden. Nei mesi precedenti Massud aveva cercato di far comprendere alle istituzioni americane il rischio drammatico che il mondo stava correndo per l’effetto dell’alleanza tra talebani e terroristi. A renderlo chiaro ed evidente fu il drammatico giorno dell’11 settembre di venti anni fa. Le immagini restano impresse nella memoria di ciascuno di noi. Sappiamo esattamente dove eravamo mentre le televisioni di tutto il mondo trasmettevano le tragiche immagini degli attentati plurimi. Gli Stati Uniti furono costretti, di fronte all’attacco in casa propria, a reagire con un’azione militare in grande stile, che ha condotto all’occupazione militare del territorio da parte di una vasta coalizione internazionale. Gli alleati di ieri erano diventati i nemici mortali di oggi. Non era facile effettuate una così drammatica inversione a centottanta gradi, anche dal punto di vista della credibilità occidentale. E questa è certamente stata una delle ragioni per le quali si è rivelata fallimentare l’operazione che ha tentato di esportare la democrazia. In fondo, i talebani erano i figli di una battaglia comune.
Con Donald Trump, nel 2020, l’irrazionalità americana è ulteriormente cresciuta: si sono trattate le condizioni del ritiro occidentale con gli stessi talebani, stabilendo una tempistica molto serrata. Joe Biden si è trovato di fronte ad un piatto pronto ed ha manifestato prima incertezze, se tenere in piedi l’accordo, poi inadeguatezza operativa nel realizzare il ritiro. Intanto, il quadro geopolitico era cambiato completamente nel corso degli anni recenti: i Talebani hanno stretto una rete diplomatica di dialogo e di alleanze, particolarmente con Cina, Russia, Turchia.
Per ora, a fronteggiare militarmente i Talebani resta solo il figlio di Massud. Come spesso accade, chi sta dalla parte dei diritti e della ragione fatica sempre a trovare alleati, sino a quando non si capisce quanto orribile possa essere il terrore. Ed a volte, come è accaduto per l’11 settembre 2001, gli allarmi possono essere tragicamente tardivi.