Il concorso bandito dalla Regione Campania per la realizzazione del cosiddetto “Faro di Napoli” ha avuto come vincitore un progetto che, da quanto si vede dall’ampio reportage di presentazione, appare di ampio respiro e di notevole qualità architettonica, il che non desta meraviglia visto che porta l’impronta di un geniale architetto come Zaha Hadid, di cui l’omonimo studio sembra essere riuscito a mantenere il segno identitario.
Detto questo vorrei richiamare l’attenzione su un punto che certamente marginale ma che mi consente di fare alcune considerazioni su una confusione che continua a permane in ambito architettonico tra “moderno” e “contemporaneo”.
Il Presidente De Luca non me ne vorrà se prendo spunto da una sua frase che estrapolo dal discorso di presentazione del progetto alla Stazione Marittima.
Sunteggiando in estrema sintesi:
“Sarà una riqualificazione urbanistica davvero straordinaria, volevamo realizzare un’opera di grande architettura contemporanea che rappresentasse l’identità moderna di Napoli”.
Per la verità mi sarei aspettato di sentir dire che per rappresentare l’identità moderna di Napoli sarebbe stata realizzata un’opera di architettura moderna e, in questo caso, avrei obiettato che il progetto dello Studio Zaha Hadid è tutt’altro che una architettura moderna.
Ma vorrei superare questo che può essere stato un semplice disguido linguistico, perché ritengo che il Presidente intendesse enfatizzare il fatto che si stava presentando un’opera di grande architettura contemporanea.
Questo è il punto da cui parte la mia osservazione, perché ritengo che non esista una architettura contemporanea o, detto in altri termini, che l’aggettivo contemporanea applicato all’architettura sia privo di significato.
Provo ad argomentare traendo spunto dalle più autorevoli definizioni ufficiali, che vanno in due direzioni.
La prima è di cose che accadono nello stesso tempo.
Dice il Devoto-Oli “che ha luogo, accade in uno stesso periodo di tempo”; e il Vocabolario Treccani “che accade nello stesso tempo”; e Il Nuovo De Mauro “che si verifica nello stesso momento”. Come si vede nulla di particolarmente dirimente sul piano scientifico, ma consente di dire che parlando di contemporaneo in architettura sicuramente non si fa riferimento ad un nesso temporale, perché non ha senso alcuno dire che una architettura è “contemporanea” nel senso che è stata progettata e realizzata nel medesimo lasso di tempo in cui si è verificato un qualche altro evento (mentre suona una campana, durante un temporale, nel periodo della pandemia?).
La seconda definizione ha a che fare con il presente.
Dice ancora il Devoto-Oli: “appartenente alla medesima età”; e il Nuovo Dizionario De Mauro: “che appartiene all’epoca attuale, al presente”; e il Thesaurus Treccani: ciò che appartiene all’età presente, alla vita attuale”.
Se accettiamo questa definizione, allorché il termine viene usato come aggettivo qualificativo del termine “architettura” dobbiamo intendere che si tratta di una architettura del tempo presente, della medesima età, della vita attuale.
Ma qual è questo “tempo presente”: oggi, il mese scorso, due anni fa?
Meno genericamente: quanto devo risalire indietro nel tempo per poter ancora dire che siamo in un “tempo presente”? Ovvero: “l’epoca attuale” quando è iniziata e, quindi, l’architettura contemporanea a quando è datata?
In realtà, come è stato acutamente osservato, “Ogni opera di architettura è “contemporanea” nel momento in cui viene creata. Solo dopo diversi decenni e con una più ampia prospettiva storica, sarà possibile riscontrare le similitudini formali, concettuali, tecnologiche o strutturali tra diverse opere che possano determinare la definizione di una corrente architettonica con altra denominazione”.
Dunque l’architettura va “aggettivata” in base ai suoi caratteri costitutivi – formali, concettuali, tecnologici, strutturali – non certo in relazione ad un generico tempo presente.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando possiamo fare riferimento ad un altro aggettivo qualificativo con cui si accompagna correntemente il termine architettura: “moderna”.
Questo perché se dico “architettura moderna” capisco esattamente di cosa sto parlando: sto parlando dell’architettura che ha caratterizzato l’epoca della Modernità, ovvero quella stagione della storia che ha origine nelle due grandi rivoluzioni della seconda metà del XVIII secolo, la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese.
Quell’architettura ha avuto come riferimento il Movimento Moderno, un’aggregazione delle più importanti figure di architetti europei che si è formata negli anni venti-trenta del Novecento con l’intento di fondare i caratteri costitutivi di una architettura congruente con le nuove condizioni socio-economiche e con la nuova temperie culturale formatesi a seguito degli eventi rivoluzionari che avevano investito l’Europa.
Già nel 1923 Le Corbusier scriveva in un testo considerato fondante per l’architettura moderna: “Stiamo uscendo da un periodo particolare della storia dell’umanità; siamo nel mezzo della formazione di una nuova era (…) Lo spirito moderno si sta affermando; dopo cento anni di dibattiti rivoluzionari sta assumendo la forza di una regola. Gli strumenti e lo spirito moderni si stanno avvicinando al punto di fusione; sta iniziando un grande periodo di architettura. Stiamo andando verso un’architettura”. (Le Corbusier, Vers une architecture, in “L’Esprite Noveau”, n.18, Paris,1923).
Sarà poi la fondazione nel 1928 dei CIAM-Congressi Internazionali dell’Architettura Moderna a dare un impulso a quel percorso durante gli annuali incontri, fino a quello del 1933 da cui scaturisce la “Carta di Atene”.
La Carta muove dalla consapevolezza che tutto sta cambiando nell’Europa occidentale, per cui non può non cambiare anche il modo di abitare e, dunque, occorre fissare alcune idee fondanti – l’idea di città, l’idea di spazio abitabile, l’idea di società – e stabilire principi, codici, regole e linguaggi dell’architettura. (La Charte d’Athènes, Plon, Paris, 1941).
Sono quelle idee, quei principi, quei codici e quelle regole che fanno sì che l’aggettivo “moderna” qualifichi in modo inequivoco i caratteri costitutivi e il linguaggio dell’architettura di quel periodo storico.
Sicché, se osservo l’edificio del Bauhaus di Gropius a Dessau (1925), la Ville Savoy di Le Corbusier a Paris-Poissy (1928-31), la Casa Schröder di Ritveld a Utrecht (1924), il Sanatorio di Paimio di Aalto (1929-33), la Casa del Fascio di Terragni a Como (1932-36) e mille altri esempi ancora, riconosco chiaramente quei caratteri e quel linguaggio e, dunque, so che cosa intendo per “architettura moderna”.
Edificio del Bauhaus a Dessau
Casa Schröder a Utrecht
Casa del Fascio a Como
Detto questo la domanda è: possiamo dire altrettanto se parliamo di “architettura contemporanea”, ovvero architettura “del tempo presente” o “dell’epoca attuale”? Vediamo, intanto, se riusciamo a collocare cronologicamente questa epoca, fissarne un inizio. Potremmo dire che ha inizio quando finisce l’epoca moderna, il che può apparire banale, ma in realtà è proprio così che bisogna cercare di interpretare la transizione: quando accade e in che modo che gli elementi portanti della Modernità cominciano a declinare per essere via via sostituiti da elementi affatto nuovi che incidono sull’economia, sulla società, e sulla cultura?
Credo che la più lucida collocazione di questo processo di transizione sia stata fatta da Remo Ceserani avanzando l’ipotesi “che il mutamento degli anni cinquanta e sessanta del Novecento abbia sostanzialmente le stesse caratteristiche di quello tra Settecento e Ottocento, che sia anch’esso cioè da considerare un cambiamento forte, di tipo epocale”. (R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, 1997).
Dunque è a seguito della rivoluzione informatico-telematica degli anni cinquanta e sessanta del Novecento che si crea una cesura con l’epoca precedente e si afferma un’epoca nuova che, con termine incerto, è stata definita “post-moderna”.
Ebbene in questi complessa fase di transizione che fa la cultura architettonica?
Compie una svolta in direzione di contrastare frontalmente il razionalismo e il funzionalismo dell’architettura moderna, proponendo teorie, progetti e realizzazioni che ripropongono stilemi del mondo classico e barocco, antepongono la forma (spesso il capriccio formale) alla funzione e sostituiscono il motto “less is more” di Mies van der Rohe con il “less is bore” di Robert Venturi.
Per citare alcuni tra gli esempi più noti di questa nuova architettura: la “Piazza Italia” a New Orleans di Charles Moore (1978), il “Portland Building” di Michel Graves a Portland (1982) e il grattacielo “AT&T Building” a New York di Philip Johnson (1978). Come si vede tutti in ambiente nord-americano (le teorie e i progetti di Paolo Portoghesi sono di altro livello culturale, ma rimangono anch’essi episodi circoscritti) e che sopravvivono per un periodo di tempo molto limitato, sicchè i progetti e le opere basati su queste idee non lasciano grandi tracce di sé, anche se la loro identità è chiara e consente di denominare quell’architettura con l’aggettivo post-moderna.
Piazza Italia a New Orleans
Portland Building a Portland
Ma per quanto riguarda la questione che stiamo affrontando, il Faro di Zaha Hadid non ha nulla a che vedere anche con l’architettura “post-moderna”. E la stessa cosa possiamo dire di altre architetture che stanno lasciando il segno negli ultimi decenni a cui non possiamo attribuire né l’aggettivo di “moderna” né quello di “post-moderna”: il “Guggenheim Museum” di Frank Ghery a Bilbao (1997); “Elbphilarmonie” di Herzog-De Meuron ad Amburgo (2007); il “Clyde Auditorium” di Norman Foster a Glasgow (1997); la “Stazione di Afragola” a Napoli, ancora di Zaha Hadid (2017) e molte altre.
Guggenheim Museum a Bilbao
Elbphilarmonie ad Amburgo
Per queste architetture sono state ipotizzate aggettivazioni diverse di cui la più pervasiva è certamente “decostruttivista”, per richiamare le disarmonie, le frammentazioni e le deformazioni dei volumi che spesso le caratterizza. E’ un’ipotesi di lavoro interessante, ma di cui è ancora tutta da verificare la capacità di individuare i caratteri costitutivi e il linguaggio di una nuova architettura.
Certamente nulla a che vedere con la frettolosa liquidazione di una grande complessità interpretativa al riparo di una insignificante “contemporaneità”.