Lunedì 11 luglio 1812 il generale William Hull, al comando del quarto reggimento fanteria U.S., varcò il fiume Detroit e invase l’Upper Canada (attuale Ontario). Convinto di essere accolto festosamente, giunto a Windsor intimò la resa alle popolazioni locali: “Siamo qui per togliervi dal giogo della tirannia inglese – proclamò – e per offrirvi ciò che abbiamo negli USA: libertà, sicurezza e benessere”. Hull fallì la missione. Sconfitto quarantacinque giorni dopo dal generale inglese Isaac Brock e dai nativi Shawnee di Tecumseh, batté in ritirata per poi essere degradato e disonorato dalla corte marziale.
Lunedì 28 aprile 2025 – mentre i Canadesi in massa si recavano ai seggi per le elezioni federali – Donald J. Trump ha postato un sinistro messaggio su X: “Spero votiate per chi vi farà diventare il 51mo stato americano. Avrete meno tasse da pagare, maggior sicurezza, e farete parte della più grande potenza militare ed economica del mondo”. Corsi e ricorsi storici: se non proprio identici, i messaggi di entrambi i personaggi risuonano straordinariamente simili. Come analoga a quella del 1812 è stata la risposta del Canada di oggi: “pronti a combattere”. Questa volta non ci sarà una corte marziale, anche perché la parola “onore” nel vocabolario dell’inquilino della Casa Bianca non esiste, ma la sberla se l’è presa tutta.
Seppur certa, la vittoria dei Liberali all’ora attuale non garantisce un governo di maggioranza per il quale occorrono 172 seggi. Mentre scrivo, lo spoglio non è ancora terminato: mancano dieci contee in cui la corsa è talmente serrata che si è deciso di ricontare le schede. Occorreranno alcuni giorni per il responso definitivo. Quello che di sicuro emerge dal voto è che in Canada, come altrove, comincia il fenomeno della polarizzazione bipartitica: non succedeva dal 1958 che i due partiti principali detenessero oltre l’80% dei voti. Da una parte il centro sinistra dei Liberali, che hanno 169 seggi (43.63%), e dall’altro la destra dei Conservatori (PCC) con 144 seggi (41.31%). Mancano tre seggi al traguardo della maggioranza assoluta e staremo a vedere se le dieci contee mancanti la garantiranno ai Liberali oppure no. I grandi sconfitti sono principalmente i Neo Democratici (NDP, partito di sinistra) che, con i suffragi dimezzati, hanno perso lo status di “partito” non avendo raggiunto il minimo dei 12 seggi (ne avranno 7); il Bloc Québecois che da 34 seggi è sceso a 22; e infine il Green Party che da 3 seggi precipita a 1. In pratica, la pluralità delle voci parlamentari, massima garanzia di una democrazia equilibrata, si ridimensiona visibilmente.
Del resto, questa volta la posta in gioco era capitale. Passata l’iniziale ilarità sulle sparate del Bullo in Chief, le offese, la mancanza di rispetto e le allusioni rapidamente trasformatesi in minacce di annessione sono state prese sul serio da tutto il Paese che dal 20 gennaio si è ricompattato come non accadeva dalla Seconda guerra mondiale. Prova ne sia l’affluenza alle urne: oltre il 70%. La narrazione trumpiana che “Il Canada è un paese fasullo con frontiere artificiali, mal disegnate e senza senso” non dista molto dalla visione putiniana sull’Ucraina. Dunque, le elezioni federali hanno ruotato intorno alla sovranità nazionale, alla guerra dei dazi, all’economia troppo dipendente dagli scambi monolitici con gli USA, e tutte le ricadute sociali dirette e indirette dovute alle scellerate scelte di The Donald.
Dopo la débâcle di Justin Trudeau, il Canada cercava un leader rassicurante, qualcuno capace di tenere testa a Trump. Lo ha trovato in Mark Carney, ex Governatore della Banca del Canada e poi della Banca d’Inghilterra, ovvero un Mario Draghi della foglia d’acero. Rapidamente, Carney ha raccolto la difficile eredità di Trudeau (20% dell’intenzione di voto a inizio marzo!) e, oltre a ad aver raddoppiato il consenso dell’elettorato, ha saputo ispirare tranquillità con un programma in buon equilibrio tra cambiamento e stabilità. Pur essendo una recluta politica, grazie alla precedente esperienza di banchiere centrale, Carney conosce lo Stato e la macroeconomia a menadito, il che sarà un vantaggio nelle negoziazioni con gli USA.
Come si conviene a una nazione veramente democratica, nel processo elettorale vi sono stati alcuni segnali altamente positivi: Pierre Poilievre, il leader dei Conservatori, il giorno stesso delle elezioni aveva prontamente rimbeccato Trump su X, invitandolo a stare fuori dal voto, ricordandogli che la scelta spettava esclusivamente ai cittadini canadesi e che il Paese non sarà mai sotto la bandiera a stelle e strisce. Fatto ancor più importante, le istituzioni hanno tenuto, nessuno ha contestato alcunché durante e dopo lo spoglio delle schede, lo stesso Poilievre ha riconosciuto la sconfitta. Una bella lezione per Washington.
Almeno inizialmente, Carney avrà un’opposizione disorganizzata: se da un lato i Conservatori hanno fatto un notevole balzo in avanti, è anche vero che Pierre Poilievre non è stato rieletto nella sua circoscrizione (qualcuno gli cederà graziosamente il seggio). Identico destino per Jagmeet Singh, capo del NDP, già dimissionario. Molti cambiamenti, grandi, e piccole vittorie. Tuttavia, per Carney non è tempo di celebrazioni: il mandato impone modestia, vi sono ferite da sanare e c’è da muovere montagne.
Innanzitutto, oltre che politicamente, il voto del 28 aprile indica che il paese è diviso anche sotto il profilo geografico: Ontario metropolitano, Québec, Labrador e gran parte del Manitoba e del Saskatchewan (circa il 65% della popolazione) hanno scelto i Liberali, mentre quasi tutto l’ovest ha indirizzato la scelta verso i Conservatori. In Alberta, la cui economia ruota intorno a pozzi petroliferi, il “drill-baby-drill” di The Donald riecheggia ancora come il canto ammaliatore delle sirene. Lo scontento dell’Ovest richiederà una mano tesa da parte di Ottawa, ad esempio con il Primo Ministro dell’Alberta, Danielle Smith, la quale sta vivendo l’incubo dei dazi, visto che tutta la produzione di petrolio va negli USA: 3,3 milioni di barili al giorno e 134.000 addetti a rischio di disoccupazione. In secondo luogo, se si analizza il voto per fascia di età la divisione è ancor più profonda: i giovani hanno votato in larga parte per i Conservatori. Se non è l’inizio di una futura svolta a destra, di sicuro è una protesta dovuta al costo della vita e al prezzo delle case. Quale che sia la ragione di questo spostamento anagrafico del voto, per Carney vi sono segnali lampeggianti di rosso intenso.
Il mandato del Primo Ministro si annuncia scivoloso, in un Canada tanto orgoglioso quanto fragile, compatto per quanto riguarda il patriottismo ma non per il resto dei temi politici. Presto cominceranno le negoziazioni con l’amministrazione USA: certo, il popolo ha scelto Carney proprio per questo motivo, ma il banchiere sarà obbligato a destreggiarsi tra le aggressioni di Trump e i messaggi interni emersi dal voto di lunedì.
Come per Justin Trudeau nel 2021 ai tempi della pandemia, Mark Carney eredita un mandato di gestione di crisi multipla. Oltre ai dazi con le loro spinose ramificazioni economiche, monetarie e occupazionali, Carney dovrà dipanare cinque ingarbugliatissime matasse: casa, innovazione e produttività, sbocco su nuovi mercati, transizione energetica e difesa.
La pandemia ha insegnato che, di fronte a un nemico comune, la popolazione serra i ranghi dietro il leader. Ma ci ha anche mostrato che una volta passata l’ondata, la risacca può essere brutale: la sfida di Carney sarà di non lasciarsi risucchiare. Sulle sue spalle riposano tutte le speranze del paese a cui egli ha saputo ispirare fiducia. Presto, dovrà anche misurarne tutto il peso reale.