Ma insomma il brigantaggio post-unitario al sud fu una guerra civile? E i briganti borbonici avevano davvero in animo di liberare le due Sicilie dai piemontesi e dagli unitari dopo la vittoria di Garibaldi e l’incontro di Teano? Una vecchia questione brandita da sempre dai neoborbonici e anche dalla storiografia revisionista, benché non in chiave legittimista. Ora arriva un bel racconto storiografico di Carmine Pinto ordinario di storia a Salerno, per Laterza, “Il Brigante e il Generale” a far chiarezza definitiva su un punto: l’identità e la vocazione dei masnadieri, come anche vennero chiamati dalle fonti ufficiali. Se ne è parlato con l’autore e lo storico Giuseppe Foscari venerdì scorso al Comune di Cava de’ Tirreni, a metà dell’800 zona di scorrerie brigantesche.
Ebbene i briganti non erano affatto dei patrioti borbonici, ancorché finanziati da essi in esilio. Bensì dei grassatori, trasformisti, pronti a tradire e a passar di campo. Dei puri imprenditori della violenza che miravano al controllo delle risorse e del territorio. In modo non dissimile, fatte le differenze, da mafia e camorra, e all’ombra di possidenti che oscillavano a loro volta tra Borboni e Unitari. Dunque briganti scaltri, mobili e coraggiosi e mossi dalla sete di guadagno per sottrarsi alle angherie della miseria da cui fuggivano già sotto i Borbone che pur li fronteggiarono e se ne servirono già dai tempi dell’invasione francese. Il libro è una cronaca storiografica di un duello che non ha nulla da invidiare ai western, tra due personaggi chiave e leggendari. Il generale Emilio Pallavicini, nobile genovese squattrinato cresciuto in accademia militare a Torino, e il pastore Crocco massaro, della grande famiglia Fortunato filoborbonica, da cui ironia della sorte uscì quel Giustino Fortunato in seguito capostipite della denuncia democratica meridionalista e unitaria.
Pallavicini era da romanzo già di suo, ed infatti compare già nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e nel celebre film di Visconti. Bersagliere ardito e galante con le donne, tutto onore, scappellamenti e duelli, giocatore indebitato e a caccia di gloria. Fu con Cialdini già nel 1848 e poi in Crimea, e nel 1859 a S. Martino, Goito, quindi sul Po nel 1866 e infine a Roma a Pia.
Crocco invece era un pastore a servizio dei Fortunato a Rionero in Vulture, soldato borbonico a forza, disertore, incarcerato ed evaso. Tentò di buttarsi con gli unitari garibaldini ma, scoperto da un suo sequestrato mentre a Rionero organizza il plebiscito, si dà alla fuga e diventa un capo carismatico.
E qui comincia l’avventura. Il western dei due protagonisti con il generale piombato con 17 divisioni di Bersaglieri al comando di La Marmora in zona operativa. Pallavicini non riuscirà mai a catturare il suo avversario che al comando diretto e indiretto di 20mila uomini sparsi in varie bande, dalla Lucania e dalla Puglia fino al Molise passando per il Salernitano, dettero filo da torcere ai piemontesi. Sollevando una vera questione sociale e morale per il nuovo regno. Che si mostrò non meno feroce dei briganti e indignando persino Garibaldi che mancò poco a dichiararsi pentito degli esiti della sua impresa!
Crocco sorpreso a Cicchitella in casa Mango, possidente doppiogiochista, fugge nello Stato Vaticano. E sarà arrestato solo dopo Porta Pia e infine graziato dalla condanna a morte a Potenza nel 1872, e condannato all’ergastolo. Morirà a Portoferraio nel 1905 e scriverà con il bersagliere capitano Massa una autobiografia molto furba e idealizzata, fonte di molti equivoci neoborbonici.
Il generale guerrigliero a sua volta muore a Roma nel 1901, messo in disparte in ragione di una pagina vincente ma imbarazzante. Non c’era gran gloria, infatti, in un conflitto interno che fece più di 20mila vittime e che rivelò le misere condizioni di un mezzogiorno non certo riscattato dal moto unitario, benché poi pieno di speranze e anche di vasto consenso patriottico!
Infatti e qui forse il limite del libro di Pinto – che non affronta di petto il tema nella sua saga – resta questo: l’esplodere pubblico della Questione meridionale stessa nella vicenda brigantesca. Perché questa insorgenza? Pura confusione e trasformismo nel trapasso di poteri? Mera resistenza dei vecchi proprietari in bilico tra Borbone e piemontesi? Ebbene, come mostra Pinto, Crocco non era un vendicatore di plebi né un Robin Hood. Né credeva nei Borbone. Voleva solo ricchezza, donne e riconoscimento di potere. Eppure le plebi accorsero a infoltire una resistenza che durò ben 13 anni! Perché? Eccoli i perché: tasse, leva militare forzata, aumento del costo della vita, rovina di artigiani e contadini. Niente più dazi protettivi. Mentre la nuova Italia al nord praticava il protezionismo. Ciò comportò che il PNL delle due Sicilie, che era pari nel 1860 a quello dell’Italia centro settentrionale, si ridusse in pochi anni del 30 per cento rispetto al resto d’Italia. Il risanamento del nuovo regno e del suo debito fu fatto dalla destra storica a scapito delle campagne e del sud. E come scrisse Franco Della Peruta, massimo storico del Risorgimento non certo neoborbonico, “L’unità d’Italia era necessaria e inevitabile, ma non fu un buon affare per il sud d’Italia”. Parole per nulla vittimiste e ancora da rimeditare.