Sull’autonomia differenziata si sta giocando la partita più politica di tutta la legislatura, assieme al futuro del reddito di cittadinanza. Nella maggioranza di governo si danza sul filo delle contraddizioni: da un lato il Ministro Roberto Calderoli tenta continuamente accelerazioni e dall’altro il Premier ricorda costantemente che non possono essere compiuti strappi eccessivi alla solidarietà nazionale.
Il Presidente della Repubblica ha utilizzato parole chiare e definitive sulla questione. Non ci sarà autonomia differenziata «senza che prima vengano garantiti su tutto il territorio nazionale i diritti civili e sociali». E non ci sarà nessun federalismo regionale che possa prescindere dalle «esigenze perequative, e non accentui le differenze tra Nord e Sud».
Per la Lega l’autonomia differenziata è la madre di tutte le battaglie, soprattutto perché deve portare a compimento l’ennesima piroetta: indietreggiare dal partito nazionale di Matteo Salvini, sconfitto nelle ultime elezioni politiche, per tornare ad essere il Partito del Nord, soprattutto in vista delle ormai prossime elezioni regionali in Lombardia, un tornante decisivo per il futuro della Lega.
Per Fratelli d’Italia l’autonomia differenziata è l’arma di scambio per poter puntare successivamente al presidenzialismo, mentre Forza Italia assiste a questo negoziato tra gli alleati di governo, mette al centro la riforma della giustizia con la separazione delle carriere ed il depotenziamento delle intercettazioni.
Tra le opposizioni i Cinque Stelle giocano in questa stagione tutta la loro partita sul reddito di cittadinanza, mentre il Terzo Polo cerca di porsi come interlocutore dialogante con il governo e non affonda più che tanto la propria vis polemica sul disegno dell’autonomia differenziata.
Il Partito Democratico è sostanzialmente assente dal confronto politico in questa fase, perché tutte le energie sono concentrate sulla estenuante maratona congressuale. Ad interloquire con il governo sono in questo momento i presidenti delle regioni che si collocano nello schieramento del centrosinistra.
La confusione raggiunge a questo punto il diapason. Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna e candidato favorito alla segreteria del PD, è stato uno dei quattro firmatati dell’accordo sull’autonomia differenziata stipulato durante il Governo di Paolo Gentiloni: per il momento tace sul tema, ma suoi emissari dialogano con i collaboratori del Ministro Calderoli tessendo una tela diplomatica per stemperare gli estremismi leghisti del disegno di autonomia differenziata.
La discussione è partita da una bozza di disegno di legge governativo che azzerava la necessità di stabilire i livelli essenziali delle prestazioni, mentre allargava l’istruzione quale area di allargamento dei poteri regionali, sottraendo la scuola alle materie esclusive riservate allo Stato. Il principale interlocutore sul disegno di consolidamento federalista predisposto dal governo è stato Vincenzo De Luca. Alla presentazione della bozza di disegno di legge Calderoli il presidente della regione Campania ha sparato ad alzo zero su tutta la linea, proponendosi come la punta di diamante della opposizione dura e senza paura alla autonomia differenziata, dimenticandosi per un momento che nel 2019 aveva presentato una sua proposta di ulteriore approfondimento del potere delle regioni.
Roberto Calderoli ha avuto gioco facile a rispolverare dalla memoria le proposte federaliste di De Luca, dichiarandosi subito disposto a farle proprie, in una danza di parole dissonanti che ci ha condotto dritti in una trasmissione di Crozza. In Conferenza Stato Regioni, il ministro leghista ha ritirato la sua proposta di legge, che era talmente sgangherata da non poter sopportare nemmeno la prova di una lettura affidata ad uno studente del primo anno di giurisprudenza. Erano completamente eclissati i livelli essenziali di prestazioni che, sin dal 2013, erano stabiliti quale passaggio indispensabile e propedeutico prima di procedere ad una ulteriore devoluzione di poteri dallo Stato alle Regioni.
I livelli essenziali di prestazioni sono tornati nella proposta di autonomia differenziata contenuta nella Legge di Stabilità 2023: ciò è bastato a Vincenzo De Luca per dichiarare vittoria su tutta la linea, rilanciando verso la frontiera di quella che viene chiamata “burocrazia zero” e che altro non è se non la sommatoria di ulteriori poteri che vengono chiesti in devoluzione dallo Stato alle autonomie locali. Non è un pacchetto secondario: rapporti con le Sovrintendenze, autonomia per i piani paesaggistici, autonomia della Regione per quanto riguarda i pareri di opere pubbliche di interesse regionale, autonomia per i porti, autonomia per gli impianti energetici alternativi. Emerge insomma una autonomia differenziata dell’edilizia proposta dal Mezzogiorno che si contrappone alla autonomia differenziata dell’istruzione proposta dal Nord. Non sembra un gran confronto, soprattutto perché sui livelli essenziali di prestazioni alla comparsa del nome non è corrisposta la comparsa delle risorse finanziarie necessarie per realizzare quella eguaglianza, almeno nei punti di partenza, che costituisce un pilastro della costruzione costituzionale per i cittadini del nostro Paese.
Senza soldi non si cantano messe. Ma senza soldi si intende fare l’autonomia differenziata: questo è previsto dal testo ora incluso nella Legge di stabilità. In questo modo si sancirà soltanto l’ennesimo arretramento della società meridionale verso il sottosviluppo. Finora tutta la traiettoria del federalismo è stata a trazione nordista, fin dall’inizio della riconfigurazione dei poteri. Se si intende seguire il magistero del Capo dello Stato, occorre ribaltare l’asse della discussione. Per dirla tutta, non si dovrebbe più parlare di livelli essenziali delle prestazioni ma di livelli equivalenti di servizio: questo è il tema che manca completamente dal tavolo della discussione,
Oggi, se verifichiamo la condizione dei cittadini meridionali nella sanità, nei trasporti, nei rifiuti, nella tutela del paesaggio, nella salvaguardia del territorio, esiste una condizione di minorità dei territori meridionali imbarazzante, che costituisce la palla al piede di uno sviluppo che non c’è. Non è ovviamente solo un tema di volumi di risorse, ma anche di efficienza nella erogazione dei servizi.
Quando si aprirà finalmente una discussione su tali questioni, potremo scoprire, se manteniamo una lettura laica dei fenomeni, che le inefficienze stanno più nei territori che non nelle strutture centrali dello Stato. Non credo che sia un caso constatare che lo sviluppo economico italiano, ed anche l’accorciamento dei divari meridionali, si sia arrestato quando è iniziata la lunga stagione della devoluzione dei poteri.