Nel 2015 Lidia Menapace pubblicò la sua autobiografia: Canta il merlo sul frumento. Il romanzo della mia vita. Davvero un romanzo la vita di questa donna, nata nel 1924 e morta in piena pandemia nel 2020. Una vita spesa a far trionfare i valori dell’impegno, della consapevolezza e della partecipazione politica. Nelle sue vicende leggiamo la storia d’Italia del ‘900, oggi spesso fraintesa più o meno consapevolmente.
Quanto ci fa bene a ridosso del 25 aprile, in una nazione che ha scelto un governo di destra, ricordare cosa significa e cosa ha significato questa data per il nostro paese! Lo facciamo ripensando alla Menapace che prese parte alla Resistenza come staffetta partigiana, nel dopoguerra si impegnò nei movimenti cattolici, dirigente della Democrazia cristiana, quindi il PCI, fondatrice de “Il Manifesto”, senatrice con Rifondazione Comunista, fu poi membro del Comitato Nazionale Anpi.
Dov’era la nostra giovane combattente quel giorno?
“Facevo parte di una formazione, quella della Val d’Ossola. Sono novarese, ero sottotenente con il nome di battaglia “Bruna”. Il movimento partigiano della Val d’Ossola è stato importante. Insieme alla mia formazione festeggiammo. Ma in modo tumultuoso. Cantando. Da un movimento rivoluzionario non si possono pretendere reazioni per così dire, codificate, ordinate”.
E cosa ricordava della sua Resistenza? Fondamentalmente la paura. Una sera buia per la neve in cui doveva consegnare dei messaggi le sembrò di vedere in fondo alla strada due mitra spianati su di lei. Si avvicinò con l’intenzione di trovare una scusa plausibile e invece erano le stanghe di un carretto che la paura le aveva fatto intendere come armi puntate.
Un altro suo ricordo significativo riguarda la grande manifestazione di Milano del 25 aprile 1945 quando si decise che in prima fila sarebbero sfilati gli uomini dei principali partiti, non le donne cui Togliatti negò questo riconoscimento di merito. Donne che pure avevano combattuto che si erano sottratte al maschilismo fascista che le aveva relegate nell’ombra, per combattere, condividendo con i loro uomini la montagna, gli agguati, le barricate. Le donne di Giustizia e Libertà decisero, quel giorno, di sfilare lo stesso, non in prima fila ma dietro come spina dorsale di quel corteo che sembrava riconoscere meriti solo ai maschi combattenti.
La Menapace e tutte le partigiane come lei dovettero quindi sfidare un doppio, triplo pregiudizio per poter partecipare attivamente alla lotta ed esserne riconosciute protagoniste. Non a caso molte di quelle eroine furono antesignane del successivo femminismo, della piena consapevolezza della necessità del riconoscimento dei diritti delle donne.
Se qui abbiamo voluto ricordare questa prossima importante data attraverso la vita e la storia di una donna, la festa della Liberazione è, in realtà, di tutti. Non va dedicata a questo o a quel protagonista. Se lo si fa è perché ciascuno di essi rappresenta un exemplum di chi quella vicenda l’ha vissuta e ha sofferto. La festa della Liberazione è la storia della Menapace ma è la storia italiana, riguarda donne e uomini, giovani e vecchi, tutti noi perché solo coltivandola memoria storica potremo evitare che si generino mostri.
“Aver ripercorso senza rigore, ma addirittura a capriccio il tratto della mia vita fino a qui a me ha fatto pensare quanto sia stata fortunata a nascere quando e dove nacqui, sì da poter partecipare nel corso di una sola vita alla Resistenza, al Sessantotto, alla crisi del capitalismo.”