Se c’è un tema di sicura rilevanza europea sono le politiche agricole. In teoria neanche dovrebbero esistere i Ministeri dell’Agricoltura ‘nazionali’, in quanto la competenza in materia è pressoché esclusiva dell’UE.
Il settore primario dell’economia, quello in cui in Europa più sono state ristrette le competenze nazionali a vantaggio di quelle comunitarie, è dunque di rilevante interesse strategico per l’Unione Europea. Le campagne, i campi coltivati, i frutteti, i pascoli sono componenti caratterizzanti finanche del paesaggio europeo, del nostro stile di vita. In breve, della nostra identità. La ‘salute’ dell’agricoltura europea è un indicatore determinante della salute dell’economia e della politica del vecchio continente nel suo insieme. Se l’agricoltura sta male, ha la febbre alta l’Unione Europea.
I numeri. Sono circa 10 milioni lei aziende agricole operanti nell’UE e vi lavorano regolarmente 22 milioni di persone. Ad esse bisogna aggiungere quelle che sono impiegate nelle lavorazioni a monte della produzione (macchine, immobili rurali, carburante, concimi, controlli e terapie veterinarie…), a valle (trasformazione, imballaggio, stoccaggio…) e nella distribuzione (trasporti, logistica e vendita). Nel suo insieme, dalle attività a monte della produzione agricola a quelle a valle, passando per la produzione diretta nei campi fino alla distribuzione, il settore contribuisce al Pil dell’Unione per oltre il 15%. Se però circoscriviamo il contributo al Pil europeo in senso stretto alla produzione dei campi, esso non va oltre il 2%.
Eppure al settore è destinato il 20% del bilancio comunitario. Due Fondi – il FEAGA (Fondo europeo agricolo di garanzia) e il FEASR (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale) – costituiscono gli assi portanti delle PAC (Politiche Agricole Comuni). Sono destinati al sostegno diretto agli agricoltori, al rafforzamento della competitività del settore, alla promozione dell’innovazione, all’agricoltura sostenibile, alla crescita dell’occupazione ed allo sviluppo delle realtà rurali.
Per il periodo 2021-2027, tra FEAGA e FEASR, l’UE ha appostato in bilancio circa 360 miliardi di euro su un totale del budget comunitario pari a 1.825 miliardi. La rilevanza – direi culturale ed identitaria prima ancora che economica – dell’agricoltura per l’Europa è la ragione per la quale il reddito degli agricoltori è ampliamente sussidiato dall’UE e dagli aiuti aggiuntivi degli Stati nazionali e delle Regioni. Se gli agricoltori dovessero abbandonare le campagne sarebbe la fine dell’Europa. E dell’Unione Europea.
Dunque, l’UE investe cifre stratosferiche per il sostegno all’agricoltura e per il sussidio al reddito degli addetti al settore. Eppure le strade d’Europa sono da settimane invase dai trattori della protesta degli agricoltori, che ce l’hanno con il loro principale benefattore, l’UE! Ci sono stati anche i primi morti, un agricoltore e sua figlia vittime delle violenze in Francia. Speriamo siano anche gli ultimi.
Le proteste di questi giorni sono dunque di difficile comprensione. Soprattutto di difficile condivisione. Ma come: l’UE investe il 20% del suo bilancio a sostegno del settore e il reddito dei suoi addetti è supportato per il 40% dai fondi comunitari, eppure gli agricoltori di tutta Europa sono inferociti proprio contro l’UE, al punto da mettere a ferro e fuoco l’intero continente?
Oggetto della protesta è il Green Deal, la transizione ecologica, con le prescrizioni che il suo programma impone al settore: dalla limitazione della quantità della produzione consentita, all’uso di materiali (carburanti, concimi) compatibili con la tutela dell’ambiente. Cose che costano, quindi che incidono sulle tasche degli agricoltori. Se ci aggiungiamo poi l’apertura delle dogane dell’Unione alla libera importazione dei prodotti dei campi ucraini, deliberata come forma di sostegno a quel Paese martoriato dall’invasione russa, e i danni sempre più frequenti delle catastrofi climatiche, abbiamo la contezza chiara di quanto possano essere esasperati gli agricoltori euroccidentali.
La contraddizione è paradigmatica del conflitto in cui si dibatte tutto il mondo, quello euroccidentale in particolare, tra inderogabile urgenza di contenere, a vantaggio del pianeta tutto, i danni dei cambiamenti climatici in corso, cominciando col ridurre l’inquinamento ambientale determinato dall’azione umana, e i costi per gli agricoltori della transizione in atto.
Hai voglia di dire e di ripetere che bisogna ridurre lo sfruttamento del gasolio a fini energetici, anche aumentandone i costi per chi ne fa uso; ma poi, quando il produttore agricolo – che già di per sé, nonostante i sussidi comunitari, dispone di un reddito da lavoro ridotto rispetto a chi è impiegato nell’industria o nel terziario (in media è inferiore del 40% rispetto ai settori non agricoli) – si trova a vedere moltiplicati i costi del carburante per i suoi trattori, si vede contingentate le quote di produzione ammesse e vede arrivare nei nostri mercati prodotti della terra provenienti da Paesi extraeuropei a prezzi per il consumatore di gran lunga vantaggiosi, percepisce il danno immediato per le sue tasche, piuttosto che il vantaggio globale per l’ambiente.
Se poi ci aggiungiamo che i partiti europeisti hanno difficoltà a mettersi contro il consistente elettorato del mondo agricolo alla vigilia del voto europeo e reagiscono con prudente cautela, giurando comprensione e promettendo ulteriori sussidi, mentre quelli populisti ed antieuropeisti sostengono senza riserve le proteste pur di rastrellare consensi, si ha il quadro esatto di quanto sta accadendo oggi nelle strade d’Europa.
Così le Politiche Agricole Comuni, man mano che ci avviciniamo al 9 giugno – data delle elezioni per il Parlamento Europeo – stanno diventando il campo di confronto centrale tra populisti e globalisti, che è poi la vera dialettica politica dei giorni nostri. Dalla stessa parte della barricata del populismo anti-europeista troviamo l’ultradestra e l’ultrasinistra, la destra sovranista e la sinistra classista, con tutti i loro rispettivi imbarazzi reciproci; da quella dei globalisti, i partiti grosso modo riconducibili a quello che una volta era il Centro politico.
Gira e rigira – con tutto il fumo retrò che potrà essere generato dal confronto tivvù Meloni-Schlein e dalla stantìa riproposizione degli schemi tradizionali Destra-Centro-Sinistra, che grosso modo fa comodo a tutti i partiti allo scopo di mantenere i loro elettorati fidelizzati – alla fine noi elettori dovremo scegliere se vogliamo l’Europa del Green Deal e della Next New Generation, oppure l’Europa della conservazione degli steccati nazionali e delle corporazioni.