Per la prima volta, in maniera del tutto inaspettata, si sono rivolti ai centri di ascolto delle Caritas o ai centri per la distribuzione dei viveri. Sono persone che nella loro vita mai avrebbero pensato di essere costretti a chiedere aiuto, anzi: molti non sapevano neppure dell’esistenza dei servizi di sostegno di questi organismi.
Sono i nuovi poveri della Pandemia, coloro che vivevano di lavori precari, non continuativi o addirittura saltuari, e che all’improvviso non riescono più a garantirsi i beni primari per la sopravvivenza personale o della famiglia. E poi le partite iva e i piccoli imprenditori che hanno chiuso bottega per la crisi economica spaventosa, coloro che hanno visto ridursi lo stipendio o che sono stati messi in cassa integrazione, peraltro riscossa anche con notevole ritardo, o peggio: che hanno perso il lavoro. Poveri insospettabili come li definisce la Caritas Italiana. Nell’ultimo anno coloro che si sono rivolti per la prima volta alle Caritas diocesane o ad altre associazioni sono passati dal 31 al 45 per cento. A partire da marzo 2020 hanno ricevuto sostegno circa 450mila persone, di cui 130mila nuovi poveri, che per la prima volta hanno sperimentato condizioni di disagio e di privazione economica tali da dover chiedere aiuto. Ci sono famiglie, soprattutto al Sud, che dormono in auto, mentre crescono i senza dimora: oltre 850mila famiglie in povertà assoluta che non possono provvedere più a se stesse. Un’emergenza nell’emergenza, che merita risposte chiare al più presto.
La povertà impedisce di pagare l’affitto o il mutuo, di mantenere i figli studenti fuori sede, di provvedere alla strumentazione necessaria alla didattica a distanza. È il volto della pandemia sociale che la prima linea del volontariato conosce ormai dall’inizio del drammatico 2020: l’aumento improvviso di persone che bussano ai centri, le richieste di aiuto che arrivano nelle parrocchie e nei patronati del sindacato. Facce mai viste prima di allora, perché ad essere colpito dalla pandemia è stato anche quel ceto medio impoverito, uscito già indebolito dalle ultime crisi economiche.
Le innumerevoli associazioni, oltre a fornire pasti e viveri, hanno distribuito dispositivi di protezione individuale e igienizzanti, messo a disposizione alloggi per i periodi di quarantena e di isolamento, offerto servizi di assistenza psicologica. I centri di ascolto hanno risposto in maniera innovativa e diversificata. Sono stati raccolti fondi per sostenere piccoli commercianti e lavoratori autonomi per le spese più urgenti come l’affitto degli immobili, le rate del mutuo, le utenze e gli acquisti utili alla ripartenza delle attività. Inoltre, hanno fornito assistenza sul fronte dell’accompagnamento e dell’orientamento per l’accesso alle misure previste dal Decreto Cura Italia e dal Decreto Rilancio, permettendo a tanti di poter usufruire dei sostegni pubblici costellati di complicazioni amministrative e lungaggini burocratiche. Il REM (Reddito di Emergenza) è stato chiesto dal 30% degli italiani. La digitalizzazione, poi, di per sé non ha migliorato i sistemi di accesso delle persone agli interventi nazionali e locali. Tutt’altro. Proprio le modalità digitali sono diventate una ulteriore fonte di esclusione per le fasce della popolazione più in difficoltà. Ma l’informazione, l’orientamento e l’assistenza durante l’iter per ricevere le misure non possono essere delegati totalmente ai soggetti sociali.
Sui singoli territori molti volontari e associazioni hanno lavorato per sensibilizzare le comunità nei confronti dei più vulnerabili. Sono partite vere e proprie gare di solidarietà da parte di cittadini ma anche di aziende. C’è la percezione di vivere un tempo inedito ma allo stesso tempo condiviso, nel quale una solidarietà inaspettata ha permesso la costruzione di nuove reti, informali e spontanee, tra persone che si sono avvicinate per la prima volta al volontariato.
Ma per uscire da questa crisi occorre una strategia per il futuro attorno alla quale far convergere risorse umane, stimolare azioni, interventi, progetti e proposte che favoriscano un’economia più attenta ai principi etici. Anche nella prospettiva del Recovery Fund.
Senza un piano definito di infrastrutturazione sociale, gli interventi, pur utili, non saranno in grado di incidere davvero sulle criticità dei nostri assetti economici e sociali. E i poveri di oggi saranno ancora più poveri.
Forse le disuguaglianze non si possono eliminare completamente. Sicuramente si possono ridurre. La forbice tra ricchi e poveri, che si allarga sempre più a tutti i livelli, impone di ripensare i modelli che non possono basarsi solo sul Pil. Ripensare questi modelli significa dotarsi di strumenti per immaginare scelte etiche e politiche conseguenti. Significa trovare nuovi paradigmi per vivere insieme.
La povertà, o per meglio dire, le povertà, antiche quanto sono antichi gli uomini, sono sempre nuove. Come lo sono le sfide con le quali ci costringono a fare i conti.