LE TESTIMONIANZE
Due coniugi, Vincenza Ruocco e Lucio Pappalardo, detto Guido, di Cetara, sono persino sconcertanti: “Per concime, tanti anni fa, consideravamo provvidenziale il contenuto dei pozzi neri o i liquami del pollaio. Secondo me – chiosa lui – era un concime migliore di quello usato oggi”. Immagino che tempesta a Bruxelles avrebbe potuto scatenare tale affermazione.
Vincenza rammenta i cesti portati sulle spalle, anche di 70 chili. Ogni cesto portato giù le veniva pagato 100 lire.
Non mostra turbamento, lei, e cataloga il tutto come routine: “Impiegavo circa un’ora per riempire le ceste su e portarle alla raccolta sulla strada. Pesavano dai 55 ai 70 chili e le poggiavo sulla nuca, aiutata da un cuscino di sacco riempito di erba per fare da ammortizzatore.
Le scarpe? E chi se le poteva permettere! Percorrevamo i sentieri a scalini con i piedi avvolti in sacchi o in stracci. A secondo del percorso da fare, ogni giorno facevamo da 5 a 10 trasporti.”
Un vero ‘apostolo’ del territorio è Salvatore Aceto, portavoce della sesta generazione di una famiglia che si è dedicata alla coltivazione dello “Sfusato di Amalfi” dal 1825.
“L’imperante culto della perfezione ci penalizza, giacché, i nostri limoni, proprio a garanzia della loro naturalità, non sono tutti calibrati e “belli”.
Questo è solo uno dei tanti problemi che rappresenta per noi una sfida quotidiana. C’è l’incubo del malsecco, un cancro della pianta che può colpire quelle più produttive e “mature”. Occorre, nel caso, espiantare le malate, bonificare l’area e reimpiantarne di giovani, che impiegheranno 20 anni per andare a regime. Per fronteggiare questa situazione e sventare l’estinzione delle coltivazioni bisogna saper innovare nel solco della tradizione.”
Una formula complessa: “Bisogna smetterla coi finanziamenti a pioggia, senza senso, perché noi non siamo come gli altri agricoltori. I nostri giardini di limoni si arrampicano su monti e colline, partendo da quota 70 metri s.l.m. fino a toccare i 400 metri, terrazza dopo terrazza. Chi vi lavora, per lo più, sono ucraini o italiani che spesso hanno superato i 65 anni e svolgono un lavoro faticoso e avaro di redditività. Quest’anno, che è quello di buona resa, nei miei 2,5 ettari, riuscirò a trarre 750 quintali di limoni, l’anno scorso ne raccogliemmo 500 quintali, nell’alternanza fra anno pieno e anno vuoto.
Sui mercati circolano ben più limoni di quelli realmente prodotti fra Vietri sul Mare e Positano; dovremmo avere centuplicate le nostre terrazze per produrne tanti. Quello che servirebbe per attrarre le giovani generazioni e dare fiato alle vecchie, sarebbe un “reddito di contadinanza.”
Tutte le donne intervistate da Flavia Amabile mostrano un coraggio da leonesse: Filomena Crescenzo ha iniziato a lavorare a 12 anni, sposatasi comunque tardi, perché dedita al suo mestiere di portatrice. Si trascinava dietro, nelle ceste, i figli neonati per non interrompere l’impegno preso. Ancor oggi, ultranovantenne, sente la casa come una prigione.
Reginalda Casaburi, anche lei novantenne energica, è tassativa: “Noi donne lavoravamo più degli uomini. Io ho “faticato” sin da bambina, a 9 anni raccoglievo l’erba, ho zappato, ho raccolto i limoni; ma li ho anche trasportati, tale e quale a ciò che facevano gli uomini. Ero infaticabile: ho portato casse sulle spalle fino a un quintale e venti chili.”
L’amalfitana Fernanda Rispoli, 85 anni e mezzo, lo scorso maggio era lì, come una carabiniera, a pesare limoni da spedire sui mercati con un’antica stadera.
Nicolina Amato, di Ravello, ci spiega come ottenere piante di limoni rigogliose. A primavera, appena l’aria riscalda, toglie le reti di copertura che preservano dal freddo gli alberelli: “Se non li scopri – dice – ogni pianta non si riempie di rami nuovi, non fa la “nuata”, come diciamo noi, non germoglia. E soffre.
Penso ai miei genitori, che persino la notte lavoravano la terra, al lume di candela e sono sempre più incentivata a impegnarmi. Non posso tradire la loro eredità.”
Angelo Ruocco, di Minori, è fan delle reti verdi, perché attirano meno sole e sono esteticamente più attraenti, racconta la sua storia: “Mio padre possedeva diversi giardini e da giovane io subivo come una condanna accontentarlo, quando mi chiedeva di occuparmene. Con la maturità, ho cambiato atteggiamento. Ora non c’è giorno che non sia impegnato nella mia proprietà. Papà fece in tempo a vedere questo mio mutamento e, pur se, per il suo carattere austero, non era aduso lodarmi, gli leggevo negli occhi la sua approvazione.
Ora mio figlio mi ha chiesto di vendere tutto, ma non lo farò.” Forse spera che anche per lui si manifesti la stessa conversione.
Antonio Cioffi, agrochef di Ravello, ha una proprietà ai piedi di Villa Cimbrone. Fa una disamina a tutto campo del fenomeno dell’abbandono dei limoneti, che, contagiando il malsecco a quelli limitrofi, coltivati, creano danni infiniti. “La gente paga per ammirare da Villa Cimbrone il rigoglio delle piante di limone sui terrazzamenti. In caso d’abbandono, per cosa dovrebbero venire, per vedere un susseguirsi di terreni selvaggi o reduci da incendi?
Occorrerebbe che una parte della tassa di soggiorno incassata annualmente dal Comune di Ravello, almeno il 30% dei 350mila euro che arrivano grazie ai turisti – propone – sia destinata al recupero degli antichi limoneti, sì da tutelare paesaggio e tradizione.”
E aggiunge: “I nostri nonni hanno lavorato un terreno ostile, strappando centimetro per centimetro appezzamenti dalla montagna e terrazzandola, senza tutti gli strumenti tecnologici di cui disponiamo oggi. Mi alzo sempre all’alba, per curare il mio limoneto, i miei olivi: mi dico sempre che è un ben piccolo sacrificio rispetto a quelli che affrontarono loro, in tempi assai più difficili dei nostri.”