L’attuale governo, nato poco più di un anno fa sull’emergenza Covid, ancora continua a reggersi su un’emergenza: la guerra. Null’altro tiene insieme le forze politiche di maggioranza. Ed intendiamoci, non è poco. Che l’Italia nei momenti critici possa contare sul senso di responsabilità nazionale è segno di tenuta della nostra democrazia.
Ma i momenti emergenziali prima o poi finiscono ed allora una democrazia vitale è in grado di tornare alla fisiologica dialettica tra valori, progetti e formazioni politiche dalla quale emergano alleanze e maggioranze politiche. È tale la democrazia italiana? Saremo in grado, una volta fronteggiata la minaccia militare e la crisi economica conseguente, di scegliere il nostro governo su base politica, senza dover far ricorso a personalità tecniche, qual è tuttora lo stesso premier Mario Draghi, ancorché stia dimostrando di avere considerevoli attitudini politiche? Se sì, quale sarà lo scenario politico parlamentare dopo il prossimo voto? Torneremo al Centrodestra di Meloni-Salvini-Berlusconi versus il Centrosinistra a guida Pd? Improbabile e, per dirla tutta, se qualcuno volesse provare a rimettere indietro le lancette dell’orologio storico, sarebbe finanche un guaio per l’Italia.
Dopo un anno e mezzo di governo di unità nazionale, è lampante che la dialettica politica non è più quella del primo decennio del secolo e neanche quella degli anni Dieci, caratterizzati dall’irruzione dei populismi e sovranismi. Per dirne una, tra Brunetta e Carfagna da un lato e Salvini dall’altro c’è oggi una distanza difficilmente ricomponibile. Così come tra Letta e Giuseppe Conte, o tra quest’ultimo e Calenda o Renzi. Per non dire della Meloni, che pur all’opposizione, al cospetto della guerra sta dimostrando un senso dello Stato di gran lunga superiore a qualcuno che invece siede al governo e che, se si tornasse alle vecchie coalizioni, sarebbe a lei alleato. Una gran bel pasticcio.
Il Covid e la guerra hanno segnato un cambio di fase storica e i partiti di inizio secolo, di per sé già ridotti in brandelli negli anni Dieci, deciderebbero la propria estinzione se volessero riproporre lo schema politico pre-emergenze. Eppure pare vogliano provarci; non sono ancora maturate infatti le condizioni perché trovino il coraggio di fare scelte innovative e di presentarle all’elettorato. Scelte come quelle di Macron in Francia nella primavera del ‘17, ad esempio. Il Presidente della Francia cinque anni fa letteralmente si inventò un partito, o meglio una formazione politica, ex novo; c’è qualcuno in Italia che ha gli attributi per correre il rischio di perdere il proprio storico elettorato di appartenenza, ancorché sempre più eroso, per lanciarsi in una sfida tanto ardita? La risposta, se voteremo con l’attuale legge elettorale, è no.
Siamo dunque, come tante volte nella storia, nel guado, il vecchio sistema non funziona più ed il nuovo non è ancora pronto a subentrargli. Bisognerebbe accompagnare il processo di maturazione del nuovo scenario politico con una legge elettorale ponte, che metta nelle mani degli elettori la scelta dei propri rappresentanti su basi identitarie e progettuali, ma con un mandato flessibile, delegando gli eletti a costruire poi liberamente in Parlamento maggioranze e minoranze fondate sui progetti concreti e su una comune visione del futuro del nostro Paese. Una legge elettorale proporzionale pura, con uno sbarramento non troppo alto e con la possibilità di indicare la preferenza per un candidato o un altro, sarebbe la scelta giusta per dare vita ad una legislatura espressione reale della nuova Italia, costituente della nuova scena politica, per la quale sarà poi doverosa una legge elettorale maggioritaria, magari a doppio turno.
È molto difficile che ci si arrivi. Dovrebbero vararla dei parlamentari, quali quelli attuali, la cui preoccupazione principale sembra essere piuttosto la propria rielezione, resa complicata dalla riduzione del numero dei seggi. L’unica propensione dei gruppi dirigenti dei partiti è verso una legge elettorale che blindi i propri seggi con liste bloccate. Ma tale scelta, qualora provassero a concretizzarla in Parlamento, si scontrerebbe con gli interessi del sottobosco dei peones, per niente disposti a farsi da parte a vantaggio dei propri rispettivi leader. Il rischio imboscate sarebbe altissimo.
È sospettabile, dunque, che i gruppi dirigenti tentino il colpo di mano a tre-quattro mesi dal voto, avendo tra loro già trovato l’intesa in camera caritatis, ovvero che si tornerà alle urne con l’attuale rosatellum, che di per sé indurrebbe a replicare le logiche del ‘18. Siamo in un vicolo cieco.
Sarebbe il momento buono perché scendessero in campo partiti radicati nella storia e nei territori, con leader autorevoli, in grado di guidare e governare i propri stessi eletti, ma dove stanno? Non se ne vedono in giro, né tra Montecitorio e Palazzo Madama, né nel Paese. Intanto la guerra si protrae e mette sempre più alla prova la nostra coesione nazionale ed europea, mentre il Covid è in agguato, pronto a ripartire in autunno.
L’ottimo Mauro Calise, sociologo di raffinata cultura politica – uno con la testa sul collo, per intenderci, di quelli che non gridano e scrivono stravaganze con l’unico scopo di bucare il video – ha concluso così il suo sconsolato editoriale su IL MATTINO di ieri, lunedì 16 maggio: “Ci sarebbero mille buone ragioni per avere nostalgia dei partiti. Ma non servirebbe a niente”.