Il cammino parlamentare del disegno di legge sul mercato dei capitali si presta fin troppo alle incursioni delle lobby delle banche e delle imprese quotate. Queste potrebbero ad esempio spingere per ulteriori interventi a proprio vantaggio, quali la liberalizzazione della disciplina delle azioni a voto multiplo o maggiorato nelle società già quotate (opportunamente lasciate fuori dal testo originario del Ddl).
Naturalmente si tratta di temi che non si prestano ad una lettura univoca. Occorrerà valutare con estrema attenzione quale sarà il testo definitivo approvato dal Parlamento. La discussione sta ora entrando nella parte più delicata del confronto tra le forze politiche. Stupisce piuttosto una carenza di consapevolezza nella pubblica opinione.
Le azioni a voto multiplo, consentendo all’imprenditore di aprire il capitale a terzi investitori pur mantenendo il controllo della società, possono rappresentare un valido strumento per salvaguardare il controllo delle società quotate strategiche e fronteggiare la crisi di liquidità delle PMI? Questa tipologia di azioni è stata utilizzata da tempo negli Stati Uniti e in diversi paesi dell’Unione europea, tra cui Francia, Gran Bretagna, Olanda, Finlandia e Svezia.
Negli Stati Uniti, ciascuna azione può arrivare a conferire anche 10 diritti di voto. E’ il caso di Facebook: Mark Zuckerberg detiene solo il 13% del capitale ma controlla la società con il 58% dei diritti di voto, grazie ad azioni di classe B ognuna delle quali gli conferisce 10 diritti di voto. Trai i più noti anche Amazon, Google, Linkedin, News Corporation, Hyatt e molti altri.
E il fenomeno è in aumento anche tra le società di minori dimensioni. Quella caratteristica di contendibilità che era molto accentuata storicamente nel capitalismo anglosassone (il cosiddetto modello delle public company) si è trasformata nel potere più forte degli azionisti, secondo i principi del neoliberismo che ha vinto in questi decenni.
In Europa il voto multiplo è una caratteristica strutturale degli assetti di controllo nei paesi scandinavi. In Francia tutte le società quotate prevedono il voto maggiorato del 100 per cento. Nella stessa direzione è andato di recente il Belgio. E a breve si adeguerà anche la Spagna. Non è questo il modello tedesco, con il suo sistema dualistico tra Consiglio di Gestione e Consiglio di Sorveglianza, attento al coinvolgimento di tutti gli stakeholders.
In Italia, il principio “one share, one vote” è stato superato solo nel 2014, quando il “decreto competitività” ha introdotto un doppio regime per società per azioni quotate e non quotate, attraverso modifiche al Codice civile e al Testo Unico della Finanza (“TUF”). Le società per azioni non quotate possono prevedere in statuto l’emissione di azioni con diritto di voto plurimo, con un massimo di tre voti per ogni azione, anche solo per particolari argomenti o al verificarsi di determinate condizioni (emendato art. 2351, quarto comma, cod. civ.).
Per le società quotate vige invece sinora il divieto di emettere azioni a voto plurimo, con due eccezioni: (i) le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all’inizio delle negoziazioni in un mercato regolamentato mantengono le loro caratteristiche e i loro diritti; (ii) se lo statuto non dispone diversamente, possono essere emesse azioni a voto plurimo con le medesime caratteristiche e diritti di quelle già esistenti in caso di aumenti di capitale, fusioni e scissioni (art. 127-sexies del TUF).
E’ invece espressamente prevista per le società quotate la possibilità di attribuire alle azioni un diritto di voto “maggiorato”, fino ad un massimo di due voti, a favore di coloro che detengono tali azioni per un periodo continuativo di almeno 24 mesi (art. 127-quinquies del TUF).
Le azioni con voto maggiorato non costituiscono una categoria speciale di azioni ai sensi dell’art. 2348 cod. civ., ma piuttosto un premio per l’azionista “fedele”. Il voto maggiorato non è trasmissibile in caso di cessione delle azioni. Se lo statuto non dispone diversamente, il voto maggiorato si conserva, invece, in caso di successione per causa di morte, di fusione e scissione del titolare delle azioni e di emissioni di nuove azioni a fronte di una delibera di aumento gratuito del capitale.
Secondo i dati Consob, quasi il 25% delle società quotate hanno adottato il voto maggiorato. Anche UnipolSai e Unipol lo hanno inserito in statuto: a fronte di una partecipazione complessivamente pari al 48%, le coop azioniste di Unipol disporranno di una percentuale dei diritti di voto del 64,87%, se fossero gli unici azionisti a chiedere il voto maggiorato. Relativamente a UnipolSai, Unipol potrà salire fino all’89,96% dei diritti di voto, a fronte di una partecipazione diretta ed indiretta pari all’81,7% del capitale.
Certamente ha influito sul poco successo delle azioni a voto plurimo il timore di una certa avversione da parte del mercato per il rischio di un emittente meno contendibile, di azioni ordinarie meno appetibili, di un consiglio di amministrazione meno accessibile ed espressione di una governance padronale che piace poco agli investitori.
Tuttavia, con alcuni presidi statutari già consolidati nella prassi statunitense sarebbe possibile neutralizzare gli effetti distorsivi delle azioni a voto multiplo.
Di fatto, negli Stati Uniti le performance delle società con strutture dual class sono state superiori rispetto a quelle degli indici di riferimento e anche le società che hanno introdotto in Italia voti multipli non hanno subito penalizzazioni da parte del mercato.
In una situazione come quella che sta vivendo l’Italia, caratterizzata da prospettive recessive, da corsi azionari delle società quotate sensibilmente ridimensionati e da grave crisi di liquidità per le società non quotate, il superamento del principio di proporzionalità tra investimento economico e potere decisionale potrebbe rappresentare uno strumento altamente strategico.
Per le società quotate infatti potrebbe essere un meccanismo forse anche più idoneo dello stesso golden power (e con minori profili di anticoncorrenzialità) per salvaguardare il controllo di società industriali e finanziarie strategiche che rischiano di essere scalate in Borsa a prezzi da saldo.
Per le società non quotate, invece, potrebbe consentire soluzioni ponderate di apertura del capitale a terzi. Gli imprenditori potrebbero vendere anche quote di maggioranza pur mantenendo intatto il controllo della società, con la possibilità di deliberare piani di sviluppo orientati al lungo periodo e di beneficiare in futuro dei ritorni economici. Ma soprattutto, l’impresa resterebbe un asset familiare trasmissibile alle future generazioni.
E’ da chiedersi però se una introduzione del voto plurimo sia realmente in grado di attirare potenziali investitori, come i dati stranieri parrebbero confermare. Gli investitori, per un verso, potrebbero apprezzare la raggiunta uniformità di soluzioni tra Italia e altri paesi. Ma che, per l’altro verso, sarebbero forse disincentivati dall’investire in un sistema in cui il voto plurimo si tramuta, più o meno velatamente, in un ulteriore strumento di consolidamento dei soci di controllo.
La discussione in corso sul disegno di legge governativo condizionerà molto i destini di governance del capitalismo italiano. Sono all’azione, in Parlamento, quelle forze che intendono sostanzialmente confermare la caratteristica familiare del capitalismo italiano, contrapposta alla contendibilità delle società sul mercato.
Va ricordato il forte conflitto che contrappose a metà degli anni Ottanta la Mediobanca di Enrico Cuccia, che difendeva la supremazia delle grandi famiglie del capitalismo italiano, rispetto al disegno di società a proprietà diffusa e manageriale che Mario Schimberni aveva proposto quale modello di rilancio per Montedison e per l’esangue mercato finanziario italiano.
Allora vinse, per mano di Raul Gardini, il vecchio capitalismo delle famiglie storiche. Pare che la storia si ripeta nuovamente. In modo più soffuso ed attraverso un dibattito parlamentare che procede in sordina, senza una reale discussione pubblica nel Paese. Le armi di distrazione di massa sono davvero tante. Sotto questa coltre possono determinarsi colpi di mano destinati a condizionare la struttura del potere economico e sociale nel nostro Paese.