Dunque abbiamo il governissimo. Ci stanno dentro tutti, tranne la piccola fronda del M5S e soprattutto i Fratelli d’Italia.
La Meloni ha ragione, una democrazia non è tale se non c’è una opposizione. Sotto certi aspetti lei rivendica per la sua formazione politica una scelta valoriale, se non addirittura di una sorta di funzione di servizio. Non è sbagliato, anche se non sfugge a nessuno che la sua sia stata anche, o piuttosto soprattutto, una scelta di scaltrezza. Il nuovo governo dovrà necessariamente scontentare qualcuno e i FdI, oltre a mantenere alta la bandiera – se non più del sovranismo anti-europeo, quanto meno della diffidenza verso l’establishment euro-atlantico – saranno il punto di riferimento di tutte le dissidenze del Paese.
Tra scaltrezza e grulleria però il confine è sottile. Tant’è che la Meloni tentenna, lasciando trapelare che magari potrebbe astenersi, ovviamente in cambio di qualche garanzia. Vero infatti che di qui al voto potrà capitalizzare da sola il dissenso, ma rischia di fare un grosso piacere ai suoi ex colleghi del centro-destra. Il Recovery fund farà la fortuna politica per un ventennio di chi ne conquisterà la gestione e le mani su quei miliardi le metteranno coloro che staranno nel governo, in questo governo, non chi ne resterà fuori. Vuoi vedere che i Salvini e Berlusconi si stanno già fregando le mani per l’auto eliminazione dell’insidiosa Giorgia Meloni dalla competizione?
Ma veniamo al governo. Al momento il suo orizzonte sembra non andare oltre un anno. A febbraio ‘22 le Camere riunite ed i delegati regionali eleggeranno il nuovo Presidente della Repubblica e nessuno fa mistero che il candidato più autorevole sia proprio quel Mario Draghi che da oggi presiede il Consiglio dei Ministri. Se così dovesse andare, l’anno prossimo il governo cadrà per le ovvie dimissioni del suo capo e, salvo imprevisti, si andrà alle elezioni in primavera. Non sarà dunque il governo attuale, ma quello espressione della coalizione vincente nella primavera ‘22 a gestire il grosso del Recovery fund.
A Draghi ed ai suoi attuali ministri, oltre a contrastare la pandemia e l’emergenza sociale, spetta decidere la ripartizione dei fondi che, ricordiamolo, ammontano ad 83 miliardi a fondo perduto e 128 a tassi di interesse agevolati, la cui somma, aggiunta ai fondi europei già programmati in precedenza per l’Italia, fa una cifra vertiginosa, 310 miliardi da spendere nei prossimi cinque anni! Faccio qui riferimento ai dati riportati da Fabrizio Balassone, capo del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia, nella sua audizione alla Camera dei Deputati dell’otto febbraio scorso. Di qui al prossimo anno però arriveranno materialmente in Italia sì e no una ventina di miliardi. Di gestione vera e propria il governo Draghi ne farà poca.
Sospettabile il gioco dei controlli reciproci, il ministro di un partito avrà viceministro e/o sottosegretari un paio di esponenti dei partiti di altra sponda ed un tecnico a garanzia del premier e del Quirinale; il ministro tecnico avrà i suoi sottosegretari politici e così via. Nel 2022 vedremo chi avrà lavorato meglio per sé, per la sua parte e per l’Italia.
Ma come saranno ripartiti i 211 miliardi del R.f.?
Ragionando sulla base della citata audizione di Balassone alla Camera, ai Progetti Green incrementati da quelli Energetici andranno oltre 80 miliardi. Su questi ha lanciato pesantemente l’opa il M5S; che però ha ottenuto il ministero, non il ministro, che sarà invece Roberto Cingolani, tecnico. 46 miliardi circa dovrebbero andare alla Digitalizzazione del Paese, ministro tecnico Vittorio Colao. 32 miliardi alle Infrastrutture, ministro Enrico Giovannini, tecnico. 29 miliardi ad Istruzione e Ricerca, ministri Patrizio Bianchi e Cristina Messa, tecnici.
Al Sociale (28 Mdi), alla Salute (20Mdi) ed allo Sviluppo economico, i ministeri che dovranno affrontare le due emergenze immediate, ci saranno i ministri politici Orlando, Speranza e Giorgetti, più vari altri, essendosi Draghi premurato di spacchettarne le competenze. Se consideriamo infine la parte che sarà gestita dal Ministro dello Economia, anch’egli un tecnico, il fedelissimo di Draghi Daniele Franco, ci appare plasticamente evidente che Mattarella e Draghi, a tutela di tutti e dell’Italia, hanno tenuto per sé il R.f.
Dunque la partita che conta si giocherà sotto la vigile sorveglianza dei ministri ‘tecnici’, veri arbitri di questa competizione.
Ho tenuto fuori dal ragionamento due questioni spinose, che pure andranno risolte entro l’anno, la riforma della giustizia e la nuova legge elettorale. Anche qui ci sarà un arbitro più che autorevole a dirimere la matassa, Marta Cartabia.
Nel ‘22 dunque, o tutt’al più nel ‘23 – con Draghi al Quirinale o chi per lui – si voterà e chi avrà meglio tessuto la tela in questo anno la spunterà nelle urne. Le carte si rimescoleranno e noi ne seguiremo puntualmente gli sviluppi. Ma mettiamo pure il caso – per niente scontato al di là dei sondaggi dell’oggi – che sarà il centro-destra a vincere le elezioni. Sarà comunque un centro-destra a chiara impronta europeista e con le mani già messe sulla governance del R.f.
Non è che la Meloni, quand’anche recuperata e beneficata con qualche briciola, dovrà mangiarsi le unghie per aver scelto l’Aventino?