Chi conosce la giornalista Francesca Mannocchi sa quanta cura, passione, cultura impegni nella sua attività di giornalista ed inviata speciale. I suoi reportage sui conflitti relativi ai paesi della lega araba, sul traffico di migranti, sull’Ucraina sono preziosi strumenti di lettura di realtà complesse. Venerdì 4 aprile, a Propaganda Live su La7, la Mannocchi in un monologo sui femminicidi ha fatto una riflessione molto puntuale. A partire dagli ultimi ma purtroppo non ultimi eventi riguardanti la tragica morte di Sara Campanella ed Ilaria Sula, I dati confermano che nel 2024 su 115 donne uccise, 99 sono state uccise in ambito affettivo e familiare. In 50 casi l’assassino era il marito, il compagno, il convivente, in 14 il figlio, in 12 è stato l’ex compagno. (Osservatorio Non Una di Meno).
Da dove nasce la violenza? La violenza nasce dal linguaggio, dalle parole, partiamo da lì, dal lessico sbagliato, fuorviante, incompleto, dannoso che usiamo per descrivere questo fenomeno, quello del “troppo amore”, del “delitto passionale”, “dell’impeto di rabbia”. La violenza di genere non si affronta come si dovrebbe perché le parole che usiamo per raccontarla riflettono la cultura del dominio dell’uomo sulla donna.
Dove cresce, nasce, dove germoglia la violenza? Nell’educazione, nelle parole che associamo ai fenomeni, perché le parole alimentano il nostro comportamento e il comportamento costruisce la cultura e fa le società. Il linguaggio ci consente di costruire la cultura, certo, ma anche di mascherarla di mistificarla, come le storie che parlano di donne che vengono assassinate, ma non di uomini che uccidono, sono le donne che vengono violentate, ma non gli uomini che violentano, sono tutte cornici queste, cornici che servono a reiterare l’idea che la violenza contro le donne sia rara, anormale, imprevedibile, la verità è che questi uomini fanno parte di una rete del linguaggio, di credenze e comportamenti normalizzati che continuano a perpetuare quella violenza e noi, i mezzi di informazione, abbiamo un ruolo potente e definitivo da svolgere nel plasmare la comprensione sulla violenza di genere: “Diceva che mi avrebbe tolto il bambino”, “voleva lasciarmi”, uccide la moglie malata, “è un gesto d’impeto”, “l’ha uccisa perché aveva l’Alzheimer”, “il marito era provato”. Oppure le foto che rappresentano queste donne e questi uomini, le donne abbracciate al loro assassino morte e condannate a vita nella loro memoria ad essere ricordate, abbracciate agli uomini che le hanno uccise. È così il racconto pubblico, le donne ammazzate perché “erano amate troppo”, perché questi uomini proprio non riuscivano a sopportare che le donne avessero deciso di chiudere una relazione, non accettavano la separazione. Uomini di cui i vicini o parenti intervistati sull’omicidio dicono sempre “non avrebbero mai avuto motivo di uccidere”, “erano proprio persone normali”. I “raptus”, i racconti romanzati dell’omicidio, la colpevolizzazione della vittima, come negli ultimi casi, gli ultimi due. “Due anni di stalking, ma lei non aveva mai denunciato”, così ha titolato ieri un quotidiano romano, insinuando il dubbio che forse certo se lei avesse denunciato chissà… E invece no, non è mai lei, è lui che è un assassino.
“Aveva sottovalutato il pericolo”, lei, la vittima. Lui “un ragazzo riservato e schivo, appassionato di moto”, e chi se ne frega se Stefano era appassionato di moto, Stefano era un assassino.
L’appassionato discorso della Mannocchi mi sembra che sgombri il campo da ogni ipocrisia. Quasi quotidianamente piangiamo delle sorelle che hanno sofferto fino al sacrificio finale, la risposta delle istituzioni è sempre la stessa e non se ne esce. Se vogliamo che il sistema cambi, il cambiamento deve avvenire attraverso un capovolgimento nell’approccio culturale, attraverso l’uso di una lingua che deve subire una rivoluzione copernicana. Sotto accusa i mezzi di comunicazione, giornali e, in primis, trasmissioni televisive in cui viene sviscerato un evento drammatico fino a raggiungere una vera e propria pornografia del dolore. Senza che la diffusione di fatti e immagini vada ad incidere davvero sui numeri drammatici delle morti. Cominciamo a capovolgere il lessico per demolire la violenza contro le donne, come ha fatto Giselle Pelicot: non siamo noi che dobbiamo vergognarci, la vergogna deve cambiare lato perché ci vogliamo tutte vive.