Ho già presentato il libro di Luigi Gravagnuolo, “Ma i cieli non si assaltano”, con una breve intervista all’autore. Non avevo in programma di tornare ad occuparmene dopo soli due mesi, ma l’altro giorno sono andato alla presentazione napoletana del volume e non ho saputo resistere.
Il testo è sostanzialmente autobiografico. Un racconto di vita politica e amministrativa culminata in una scelta di conversione religiosa. Si articola in due interviste parallele incentrate sull’esperienza giovanile sessantottina e su quella, matura, di sindaco di Cava de’ Tirreni e non solo.
Quindi la tesi, comunista in lotta per l’emancipazione dell’umanità, l’antitesi, pragmatismo politico a servizio del bene comune, e la sintesi, i cieli non si assaltano e divento un oblato benedettino. Almeno in apparenza. Potrebbe invece trattarsi di un percorso lineare, evolutivo o involutivo a seconda dei punti di vista. Un costante impegno civile, variamente declinato.
La trattazione, mai autoreferenziale e priva di qualunque pretesa di assolutismo analitico, finisce, forse persino oltre le intenzioni, per abbracciare un contesto politico e territoriale di oggettivo interesse, caratterizzato da una serie di questioni irrisolte sia sotto il profilo storico che della prassi di governo. Il ’68, non ancora storia, ovviamente non più cronaca. Le problematiche connesse con l’amministrazione degli Enti locali, in Campania in particolare, e con la gestione del territorio e delle comunità. La specificità cavese, che tocca Salerno, ma anche Napoli. L’attualità dei temi concreti trattati e dei personaggi coinvolti.
Ne hanno parlato, durante l’incontro cui ho fatto cenno, nell’ordine: una dirigente politica del ’68, un magistrato di sinistra e un religioso. A rappresentare plasticamente le tappe del viaggio. Il libro è rimasto un po’ sullo sfondo, come spunto di riflessione sui temi generali, e l’azione concreta di Gravagnuolo sindaco è finita quasi in sordina.
Invece, è proprio questa che dà valore all’intero discorso, altrimenti mera testimonianza, offrendo una visione prospettica sia delle esperienze precedenti che di quelle successive. Cosa e perché è stato fatto a Cava in quegli anni. Con quale progetto e in quale quadro politico. Come hanno interagito i vari protagonisti, da De Luca a Bassolino, a Cirielli e via dicendo. La comunità come realtà articolata, contraddittoria, risultante di interessi a volte contrapposti e non sempre tutelabili, magari illeciti o semplicemente non condivisibili. Quindi la scelta, che presuppone il giudizio. Etico? Nei fini o anche nei mezzi? Il giudice deve essere il politico eletto o i suoi elettori, al servizio dei quali è destinato? E’ necessaria la mediazione politica, la sintesi delle differenti istanze, e fino a che punto?
L’Italia, è stata a lungo ostaggio di una politica di ispirazione variamente cristiana e di un marxismo stalinista (ossimoro) in salsa crociana, che hanno sempre rivendicato un ruolo etico, pur operando concretamente con un pragmatismo gestionale anche nobile, ma più spesso di bottega. Né il ’68 né gli anni di piombo, fenomeni profondamente diversi tra loro, sono stati esenti dalla tara del moralismo. Anzi, soprattutto il primo ha contribuito a creare un personale politico e dell’amministrazione della giustizia convinto, non di rado in maniera strumentale, di adempiere ad una funzione etica. Marx aveva rovesciato la dialettica hegeliana. Paradossalmente, sono i liberali ad averlo capito.
La promessa del paradiso porta a vendere le indulgenze. Pragmatismo e professionalità dovrebbero improntare l’azione di tutti. Ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, con umiltà e rispetto del prossimo, senza pretendere di separare il bene dal male.
I cieli si assaltano eccome. Si conquistano persino. Ogni giorno. Nella consapevolezza che l’assoluto non esiste.