Riproponiamo qui un amarcord di Vito Nocera su Omar Sivori, pubblicato nel 2021 nell’amatoriale Il poster in una stanza, a cura di Mauro Bolzoni per Amazon Publishing. Bolzoni aveva chiesto ad alcuni intellettuali italiani un ricordo su un campione sportivo.
Omaggio al più grande
Ovviamente parlare della squadra del Napoli e non parlare di Diego è praticamente impossibile. In genere un club e una maglia valgono sempre più di un singolo calciatore, anche il più grande. Gli uomini passano, anche i campioni, e la storia dei club prosegue. E’ una regola fissa del calcio. E in fondo anche della vita. Con Diego Armando Maradona a Napoli, e anche in Argentina, questa legge naturale si è infranta. E’, e sarà, per sempre lui la continuità dei colori azzurri e dell’Albiceleste. Diego, con quell’impasto tra genio calcistico assoluto e straordinaria e carismatica personalità, non ha eguali nella storia del calcio moderno. Altri campionissimi hanno dovuto pagare il prezzo della vita per assurgere a miti. Si pensi al leggendario Valentino Mazzola e ai suoi compagni di squadra del grande Torino, o allo stesso Gigi Meroni. E anche in uno sport forse più epico del calcio come il ciclismo la stessa cosa è avvenuta con Fausto Coppi. Con Diego anche questa regola è stata sovvertita. E per lui è stato un peso anche più grande portare in vita la forza del suo mito. Uno sforzo immane, incalcolabile. E questo peso ha certo concorso ad ucciderlo. Ora che è asceso ad un definitivo ed inarrivabile Olimpo sembra un sacrilegio perfino nominarlo. Ormai leggenda eterna, non solo del calcio.
Il Napoli e i sudamericani
La storia tra Napoli, il Napoli, e l’Argentina – e più in generale con l’America Latina – è una storia che ha però anche tanti altri protagonisti. Quei sud che si annusano hanno prodotto vicende calcistiche e umane memorabili. Basti pensare al brasiliano Canè, arrivato in città nel 1962, rimasto al Napoli fino al ’69, dove, dopo una parentesi di tre anni a Bari, tornò nel 1972 fino al ritiro tre anni dopo. Uno di quei brasiliani di colore arrivati in Italia all’inizio degli anni ’60.
Ogni squadra importante ne aveva uno. All’Inter c’era Jair, un’ala velocissima e sgusciante, al Milan Amarildo, un vero talento che ai mondiali del 62 aveva sostituito Pelè infortunato, portando la nazionale carioca alla vittoria, la Juventus aveva acquistato Nenè per farlo giocare centravanti anche se il brasiliano si rivelò un grande centrocampista, più tardi nel Cagliari che vinse lo scudetto.
Canè, che oggi ha 80 anni, vive ancora a Napoli, dopo aver fatto in provincia per anni l’allenatore di squadre minori. Così come a Napoli ancora vive, all’età ormai di 88 anni, Luis Vinicio. Arrivò nell’estate del 1955, un centravanti travolgente che i napoletani ribattezzarono ‘0 Lione. Segnava gol a grappoli. Ricordo ancora – avevo cinque anni – quando con mio padre andammo alla inaugurazione dello stadio S. Paolo. Era il 1959 e ‘O Lione con una sforbiciata consentì agli azzurri di battere la Juventus. Il brasiliano Vinicio è stato anche un allenatore importante e innovativo, squadra corta e calcio totale, con un Napoli che sfiorò lo scudetto nel ’75. Anche Vinicio, dopo aver allenato in diverse città, è a Napoli che vive.
Lo stesso è stato per l’argentino Bruno Pesaola, il Petisso. Calciatore e poi allenatore di rara furbizia. Un personaggio a suo modo leggendario, che ha dato tutto se stesso agli azzurri vincendo però lo scudetto a Firenze. Il Petisso (piccoletto) arrivò nel 1947 alla Roma, poi giocò nel Novara e a Napoli per ben otto anni. Da allenatore fu un vero filibustiere, tante le storie che su di lui si raccontavano, le tante sigarette fumate, il cappotto di cammello che per scaramanzia portava in panchina anche d’estate. Pesaola è morto nel 2015 a Napoli dove viveva.
Sono tanti i sudamericani passati dal S. Paolo. Credo siano stati più di 70 . Alcuni campioni fortissimi: Altafini, Careca, Higuain, Alemao, Diaz, Bertoni, Lavezzi, Clerici, Sormani, gli uruguagi Cavani e Fonseca. Altri meno famosi ma egualmente importanti e amati dai tifosi, come Hugo Campagnaro e Walter Gargano, il colombiano Zuniga. Citarli tutti sarebbe impossibile. Tutti hanno coltivato con Napoli un rapporto particolare, trovavano lì parte del loro mondo.
Enrique Omar Sivori
Tra tutti però – se si esclude Maradona – spicca un altro piccolo argentino di cui mi piace qui raccontare. Anche se, pur amatissimo, a Napoli ha giocato per poco.
La sua leggenda, perché di leggenda si tratta, la visse alla Juve. Fu a Torino che, arrivato alla fine degli anni ’50, diede mostra del suo grande talento calcistico portando i bianconeri a traguardi importanti. A metà degli anni Cinquanta il Paese ancora faceva i conti con una ricostruzione in corso, la gente si spostava molto per lavoro verso le città produttive e Milano e Torino acquisirono una centralità anche nel calcio. Sono gli anni in cui diventa una squadra importante il Milan, in cui la Juventus diventa una specie di fidanzata d’Italia, e l’Inter colleziona vittorie che contribuiscono a dare nuova speranza a un Paese che ha bisogno di credere in se stesso. Sono gli anni milanesi di Moratti e Rizzoli, a Torino già c’è Agnelli. Il calcio diventa la vetrina principale per dire al Paese che la traversata nel deserto del dopoguerra è conclusa. Furono anche gli anni in cui le scarse fortune della nazionale e dei club su scala europea portarono al blocco dell’ingaggio di giocatori stranieri. Era, come sempre in questi casi, una scorciatoia di propaganda, in realtà eravamo un Paese ancora povero e che in più aveva perso in quel modo la squadra del Torino, la migliore non solo in Italia.
E però con la clausola degli oriundi arrivarono da noi tanti sudamericani importanti con lontane origini italiane. Fuoriclasse assoluti, come gli uruguagi Ghiggia e Schiaffino, che con i loro gol avevano battuto il Brasile in casa propria vincendo il mondiale del ‘50, il famoso Maracanzo. E poi Montuori, Julinho, Da Costa, Maschio, Angelillo.
Tra loro, nel 1957, arriva alla Juventus l’argentino Omar Sivori. Sivori non aveva nulla da invidiare a Maradona e a Pelè e se avesse giocato nell’era dei media forse a loro due sarebbe stato di diritto accostato. Sembra lento ma con passettini svelti e brevi è di una rapidità incredibile. Il suo calcio è tecnico e irridente, famosa la sua capacità di fare tunnel agli avversari. Segnava con regolarità impressionante e diventò con facilità il vero re di Torino.
Questo piccolo giocatore, soprannominato il Cabezon per la grande massa di capelli neri su un fisico tutto sommato gracile, aveva appena vinto la Copa America con la nazionale argentina formando con i connazionali Maschio, Angelillo e Corbetta un reparto d’attacco formidabile. Giocava nel River Plate, la squadra più importante del Paese.
Sivori aveva molte caratteristiche che poi ebbe anche Diego ma da lui fu differente nella generosità. Il Pibe è stato un uomo e un calciatore generosissimo e sociale, a modo suo attento al mondo intorno. Sivori era la strafottenza fatta persona ma era egualmente magnetico e dotato di carisma.
Il River, la sua squadra argentina, da molti è considerata la più forte di sempre. Famosa la sua Maquina, cinque attaccanti che in Argentina ancora oggi sono un mito. Juan Carlos Munoz, Manuel Moreno, Adolfo Pedernera, Angel Labruna, Felix Loustau. Tra il 41 e il 46 vinsero tutto e con un gioco che anticipa Ajax e Barcellona tanti anni prima. I cinque fecero da maestri al grande Alfredo Di Stefano. Quel gruppo trovò concetti nuovi di calcio che si sarebbero poi conclamati più tardi in Europa. Movimenti senza palla, occupazione dello spazio. A questa intelligenza nuova univano una grande tecnica. E continuarono a vincere quando Di Stefano prende il posto di Pedernera in quella prima interpretazione del ruolo di falso nueve. Era quello il clima in cui matura il giovane Sivori e dove gioca in nazionale con gli altri tre angeli dalla faccia sporca, Angelillo, Maschio e Corbetta.
Il quartiere la Boca, dove ai primi del Novecento sono nate il River Plate e il Boca Juniors, è in fondo un piccolo quartiere ma le storie che lì il calcio ha incardinato sono infinite. Zona di immigrati italiani e di futbol. In fondo anche Sivori, come Maradona è figlio di quel mondo. E se la mano de Dios di Diego ha avuto un significato politico nel punire gli odiati nemici inglesi, gli sberleffi più individualisti agli avversari di Sivori ricorrono allo stesso inganno. Così definiva il calcio Menotti, più intellettuale che allenatore: il calcio si basa su tre cose, tempo, spazio ed engano. Muoversi in una certa maniera, fingere di andare da un lato per poi gettarsi dalla parte opposta. Ecco l’inganno. E di questo inganno Sivori fu maestro assoluto.
E questo calcio, dissacrante e sfrontato, ma insieme anche tanto vincente Sivori lo esporta nella fredda Torino. Lì gioca dal 57 al 65, quasi una intera epoca storica, vince campionati, coppe e nel ’61, grazie alla sua condizione di oriundo naturalizzato italiano, vince il pallone d’oro.
Sivori al Napoli
Intanto l’Italia cambiava e cambiava anche il calcio. Alla Juventus era arrivato un allenatore con idee di calcio totale. Heriberto Herrera sintetizzò questo suo calcio con la parola Movimiento. Insomma tutti dovevano correre e dare una mano. Con Sivori furono subito scintille. Ora Omar aveva 31 anni, cominciava ad accusare qualche battuta a vuoto e quel nuovo modo di giocare non faceva per lui.
Avevo undici anni e non stavo nei panni quando seppi che Sivori sarebbe venuto al Napoli. La squadra era risalita da poco dalla B, dopo anni stentati e quell’acquisto rappresentò qualcosa di sensazionale. Chi avrebbe potuto immaginare che Sivori sarebbe stato solo l’antipasto e che il S. Paolo, circa vent’anni dopo, sarebbe diventato lo stadio di Diego, l’unico, forse, più grande di Omar Sivori. Entusiasmo alle stelle. Con mio padre e mio zio Eugenio avevamo penato anni su quegli spalti in confronti con il Lecco o con il Brescia, spesso anche raccogliendo rotonde sconfitte. Ora si preparavano anni diversi peraltro guidati dal fuoriclasse dell’odiatissima Juve. Decidemmo così di mescolarci alle migliaia di altri tifosi che andarono ad attenderlo alla stazione di Mergellina. Era il 19 luglio del 65. Che grande giorno, coi miei undici anni gracili soffrivo la folla, era così anche quando andavamo allo stadio, e prima ancora per arrivarci in metropolitana. Papà e lo zio Eugenio quel giorno dovettero quasi fare a botte con un gruppo di persone per salvarmi da quella morsa di folla che rischiò di stritolarmi. Ma ne valse la pena.
Fummo subito terzi, dietro il Bologna e la grande Inter dell’altro Herrera, il mago Helenio. Il Napoli oltre a Sivori aveva acquistato anche Altafini dal Milan, un centravanti brasiliano tecnico e intelligente. E tutta l’ossatura della squadra era stata rinforzata con innesti appropriati. L’anno dopo fummo quarti, a vincere il tricolore fu proprio la Juve operaia di Heriberto Herrera, ma per noi era una festa lo stesso. Stare in quei piani di alta classifica era una gioia semplice che ci accontentava. E poi le giocate del Cabezon ci aiutavano a vivere. Non ci accorgemmo nemmeno che quel nostro folletto cominciava a declinare, la voglia iniziò a venirgli meno, e già normalmente non è che lavorasse molto.
Eravamo nella stagione ‘68/’69, ero ormai sulla soglia dei 15 anni e già da un po’ giocavo a calcio nella squadra del mio quartiere. C’era un allenatore, gli allenamenti settimanali, la convocazione in sede il sabato e la domenica la partita. Giocavo da ala destra, i calzettoni arrotolati alla caviglia come Sivori ma non osavo nemmeno per un istante ispirarmi a lui. Davvero immenso per sperare anche solo per scherzo di imitarlo. Piuttosto mi ero sempre ispirato a Gigi Meroni, la farfalla granata, e quando morì, in quella fredda sera di ottobre del ‘67, ho pianto. Questo impegno mi portò a saltare qualche sfida al S. Paolo. Ma quel 1° dicembre del 1968, pur avendo da giocare una gara importante con la mia squadra, non volli mancare alla sfida con la Juve.
Fu una partita durissima e fatale, vincemmo e la gioia fu tanta ma quella maxirissa con pugni ed espulsioni ci lasciò l’amaro in bocca. L’espulsione di Sivori, che non aveva trattenuto la sua irruenza colpendo un difensore avversario, sembrò una grande tristezza momentanea. E invece quella fu l’ultima volta che vedemmo Omar Sivori su un campo di calcio. Il verdetto durissimo di sei turni di squalifica lo convinse, alla sua maniera individualista e ribelle, a finirla col calcio giocato. Ma allora a 33 anni un giocatore non era fresco come gli ultratrentenni di adesso. Non lo sapevamo ma vedemmo uscire dal campo per sempre il più grande, fino ad allora, che aveva calcato il prato del S. Paolo. La sua però a pensarci ora fu quasi una staffetta ideale con Diego.
Per questo Sivori, pur avendo giocato poco e nei suoi ultimi anni di carriera col Napoli, è così importante per i nostri colori. Lui annunciò in qualche modo l’arrivo di Diego. E Diego di Sivori fu allievo e amico. E fino al 2005, anno in cui non ancora settantenne Sivori morì, i due si sono tenuti in stretto contatto. Se, come ha scritto il giornalista scrittore, Marco Ciriello, Maradona è un Lenin senza la parte noiosa, Sivori è un Kerouac senza scrivere libri. Entrambi possono essere narrati solo tenendoli dentro una coltre di arte e letteratura. Borges e Gardel, Caravaggio e Cervantes. In entrambi calcio e vita si fondono, diventano mito e poesia.
Straordinaria l’ultima immagine di un Sivori già brizzolato che gioca a calcetto con un giovane Diego. E’ uno scampolo di partitina che circola in rete in cui i due grandi argentini della storia azzurra sembrano intrecciarsi in un’anima sola. Sivori l’annuncio di Diego, Diego la continuazione, ancora più in grande, di Sivori. Un cerchio romantico e struggente che ha chiuso insieme la Boca e Fuorigrotta. Quel sud al nostro sud. E i nostri sogni adolescenti alle nostre tristezze e stanchezze di una età matura.