Indro Montanelli, in una delle sue ultime interviste televisive, ammoniva: “Non si deve fare giornalismo per diventare ricchi o potenti, lo si deve fare per fare giornalismo. Un ragionamento essenzialmente tautologico, ma che proprio per questo segue una costante assoluta nel pensiero occidentale sull’etica, da Socrate a Kant, quella del bene come valore in sé”.
Magari molti giornalisti attuali, specie se giovani e ad inizio carriera, ghigneranno a leggere queste parole. Davvero difficile che un giovane oggi possa sperare di diventare ricco e potente col giornalismo. La gran parte di loro vive di mere soddisfazioni personali e già gli va bene se trova un editore che gli giri pochi spiccioli per gli articoli che pubblica.
Ai tempi del giovane Montanelli non era però così, il giornalismo era uno dei mestieri delle élite, ed effettivamente chi aspirava ad entrare in quella casta lo faceva il più delle volte con l’occhio rivolto alla sua collocazione stabile nella borghesia che conta, col risultato di venirne omologato con conseguente perdita della propria autonomia. Comprensibile, perciò, il suo richiamo etico al “giornalismo che si fa per il giornalismo, e per nessun’altra cosa”.
L’intervista era televisiva, quindi parlata. Per parte mia sono certo che, se il Maestro invece di dirle, le avesse scritte quelle parole e le avesse rilette prima di pubblicarle, avrebbe corretto il lemma bene con verità. Fine unico del giornalista è ricercare e raccontare la verità.
Si era iscritto idealmente, il giovane Montanelli, alla prezzoliniana Società degli àpoti.
Potus in latino è il participio passato di bibere. L’a iniziale è un’alfa privativa, alla greca. La Società degli à-poti, voleva essere il club di quelli che non se la bevono. Fu una trovata di Giuseppe Prezzolini, che ne scrisse nel ‘22 su La Rivoluzione Liberale, la rivista di Piero Gobetti, col quale dialogò. Basta un minimo sforzo di contestualizzazione storica per intenderne appieno il senso.
I prezzoliniani à-poti erano dunque quelli che non se la bevevano, cioè che ricercavano la verità senza lasciarsi condizionare dalle versioni ufficiali o ideologiche. I veraci giornalisti appunto.
Diversamente da questi, i politici non sono tenuti a perseguire necessariamente la verità, ma il bene, che non è sempre la stessa cosa. A volte al politico è concesso derogare dalla verità, purché la sua bugia, o la sua mezza verità, sia funzionale al bene comune. Una politica tutta verità è mera testimonianza minoritaria. Etica è la politica che, magari con l’aiuto di qualche mezza verità, persegue il bene comune. Altra cosa – beninteso – è l’uso della menzogna finalizzata al bene privato del politico.
Mi permetto di proporre queste considerazioni a margine della lettura della recensione del libro autobiografico di Andrea Carandini, L’ultimo della classe. Archeologia di un borghese critico, Rizzoli, firmata per il Corriere della Sera di domenica scorsa da Galli della Loggia.
Carandini, nella lettura dell’illustre recensore, attribuisce ai giovani borghesi italiani del secondo dopoguerra – ed a se stesso – la responsabilità di essersi lasciati infatuare dal marxismo nel Sessantotto e di aver così rinunciato a svolgere il ruolo di classe dirigente del Paese.
Quando poi è passata l’euforia di quegli anni ed è svanita l’illusione che la verità e il bene stessero in un pensiero ed in una classe sociale estranei ai valori della propria classe d’origine, è subentrato il disincanto. I giovani borghesi sessantottini si sono ritrovati senza valori e senza verità, e privi di essi hanno comunque posizioni dirigenti nella società. Il relativismo e l’individualismo, in breve il cinismo, sono stati la loro cifra culturale, che è poi il minimo comun denominatore della politica e del giornalismo tra fine secolo ed inizi millennio. E lo è ancora.
Con l’aggravante, negli ultimi decenni, dell’esplosione del giornalismo fai-da-te dei social network. Altro che emancipare se stessi dalle scorie ideologiche per guardare la nuda verità di prezzoliniana e montanelliana memoria, oggi i giornalisti dei post e dei tweet sparano fake news a mitraglietta incuranti sia della verità che del bene. Preoccupati solo dei like.
Gli utenti dell’informazione dovrebbero difendersi, ma come? Francesco Santoianni, bizzarro influencer dei nostri giorni, ha appena pubblicato per l’AD Edizioni un manuale per l’uso: Fake news – Guida per smascherarle. Niente di che, per carità, ma segnala un bisogno.
E se la fondassimo davvero una Società di quelli che non se le bevono?