Anni e anni di Tv del dolore ci hanno educato a un protocollo dell’esibizione dello strazio che spesso avremmo preferito non vedere. Il microfono sbattuto in faccia e il cronista che chiede: “Cosa ha provato in quel tragico momento?”. Ci è spesso capitato di assistere e reazioni scomposte, sofferenza esibita senza pudore, parenti della vittima che fanno richieste di condanne esemplari. Di questo copione fanno parte, purtroppo, anche i femminicidi, ma dopo il caso della povera Giulia Cecchettin, la ragazza presumibilmente uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, abbiamo assistito a qualcosa che ha destato stupore. La sorella Elena ha scelto di smettere le vesti della donna spezzata dal dolore, e ha invece puntato il dito per indicare il responsabile morale nascosto dietro ogni femminicidio: quel senso di dominio, quel diritto di possesso e di assoggettamento, (che una pericolosa minoranza di uomini crede naturale), verso la donna che dicono di amare.
Da quando Giulia Cecchettin è scomparsa, la sorella Elena ha risposto alle domande dei cronisti, è andata in televisione, ha scritto una lettera al Corriere della Sera, pubblicato i suoi pensieri sui social, e soprattutto, da quando la ragazza è stata trovata morta, Elena ha parlato a gran voce. Per rendere giustizia a Giulia, per descrivere chi era, ma anche per scongiurare che altre donne subiscano il male che hanno subito Giulia e tutte le vittime di femminicidio, e per dire parole che le attiviste, i movimenti femministi e le associazioni che si occupano di donne vittime di violenza dicono da sempre.
L’omicida di sua sorella non è un mostro, ma un “figlio sano della società patriarcale, che è pregna della cultura dello stupro. Che il femminicidio non è un delitto passionale, ma di potere, è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge.”. Parole che hanno turbato molti, a cominciare dal padre di Filippo Turetta. “Vederci descrivere ora come una famiglia patriarcale ci addolora molto, crediamo che nostro figlio sia impazzito”. È certo più accettabile per un padre pensare che un figlio sia impazzito, per la società credere che quello che sembrava un bravo ragazzo era invece un mostro, piuttosto che immaginare di avere una responsabilità in un fenomeno così odioso e diffuso. Non solo, Elena Cecchettin ha aggiunto che “gli uomini devono fare mea culpa, anche chi non ha mai fatto nulla, anche chi non ha mai torto un capello” non sta dicendo qualcosa di nuovo ma lo sta dicendo nel momento in cui la sensibilità è turbata dall’ennesimo delitto che ha sconvolto tutti.
Quelli che vorrebbero vederla piangere, come si conviene alle vittime, si trovano spiazzati e contrattaccano, prendendosela con la sua felpa che richiamerebbe il mondo dell’occulto e del satanismo, cioè la rappresentazione del male, quello vero. È quanto sostiene Matteo Montevecchi, consigliere regionale della Lega in Emilia-Romagna, che ritiene le parole di Elena Cecchettin inaccettabili e frutto di propaganda funzionale alla diffusione di un determinato pensiero che impone di credere che sia una colpa il solo fatto di essere uomini e che quindi ci sia la necessità di una rieducazione di Stato.
È dunque così pericoloso un appello che invita le donne a reagire e gli uomini a porsi delle domande su cosa potrebbero fare per affiancare le donne nel difficile compito di cambiare finalmente lo stato delle cose? Cosa c’è di scandaloso? È un invito a invertire la rotta di una responsabilità collettiva e diffusa, una rivoluzione culturale quotidiana da cui nessuno può sentirsi escluso, un’urgenza che non consente ad alcuno né scuse, né scappatoie.