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Editoriale. La mission del Governo Draghi è in Europa

by Pasquale Cuofano
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Il Coronavirus ha generato, indubbiamente, un momento difficile che ha messo alla prova tutti, in Europa e nel mondo, chiedendo solidarietà e cooperazione nella gestione della crisi sanitaria, anche se assenze ed incertezze si sono accumulate in questi ultimi mesi rallentando decisioni importanti e risolutive dei problemi. Mentre il nostro pianeta si avvia a somigliare ad una comunità complessa e interdipendente quale quella definita da McLuhan “villaggio globale”, le telecomunicazioni, i network mondiali e sociali, il commercio internazionale hanno posto, di fatto, popoli lontani l’uno di fronte all’altro in uno spazio comune e le differenze possono essere risucchiate in un vortice che tutto amalgama o possono insorgere con violenza per rivendicare diritto di cittadinanza nella casa comune. E l’Unione Europea, tramortita dalla crisi sanitaria, presto divenuta crisi economica e finanziaria, non sempre ha letto adeguatamente “i tempi” ricchi di sorprese e di sviluppi ambigui. Non sempre è riuscita a mettere in campo iniziative necessarie e preziose sul fronte caldo della politica estera e della sicurezza ma anche su quello di una reale politica sanitaria. L’UE ha perso a volte il ruolo sulla scena internazionale e ha visto logorarsi i suoi valori fondanti della solidarietà e dei diritti.

Ma la pandemia potrebbe finalmente segnare un’inversione di tendenza, a patto che l’Europa si sforzi di capire quello che sta succedendo nel mondo e passi rapidamente dalle parole ai fatti. Capire e decidere sono i due imperativi che gli Stati europei hanno davanti. Comprendere quanto sia interdipendente il mondo e quale sia il posto che vi occupa l’Europa, con la sua storia, la sua cultura e le sue potenzialità ancora importanti, nonostante questi lunghi mesi di crisi. E rapidamente adottare provvedimenti provvidenziali per risollevare la comunità dalla crisi pandemica prima e quella conseguenziale economica appena dopo.

Come spesso accade in queste circostanze, potremmo seguire il suggerimento di un grande intellettuale italiano, Giambattista Vico, che tre secoli fa ci stimolava a riconoscere in ogni «traversia» una gamma più o meno grande di «opportunità». In quest’ottica possiamo dire che sarebbe bene sperare che niente torni come prima, è un filo rosso che collega molte risposte: nulla sarà più come prima. In questo si cela, innanzitutto, un giudizio negativo sul futuro che è una componente dell’ansia e della paura generate dall’epidemia nell’opinione pubblica mondiale.

Mentre siamo travolti dal terrore di essere aggrediti dal virus e di entrare in quelle tragiche statistiche di infettati, intubati, morti, che circolano all’impazzata sui media di tutto il pianeta, l’incertezza sulle nostre capacità di difendere la salute e la stima dei costi economici di questa pandemia si abbattono come un macigno sullo sforzo che ognuno di noi sta facendo per vedere una qualche luce in fondo al tunnel.

Ma possiamo anche individuare le positività. Come era già accaduto nelle grandi epidemie ottocentesche, come il colera, o in quelle novecentesche, come la Spagnola o l’Asiatica fino alla Sars e alla suina del XXI secolo, queste tremende sindromi favoriscono un salto di qualità nelle conoscenze mediche e nei presidi sanitari. Da questo punto di vista il dopo sarà meglio del prima, perché ne sapremo di più su questi terribili nemici della nostra salute, ma soprattutto avremo imparato che le difese potranno nascere solo dall’incremento della cooperazione internazionale sul piano scientifico e organizzativo per debellare il virus.

Ovviamente la traversia diventerà opportunità se aumenteranno gli investimenti sul sistema sanitario e sulla ricerca scientifica, se cadranno gli ostacoli politici ed economici che impediscono l’accesso alle cure mediche di molti abitanti del pianeta attraverso politiche sanitarie universalistiche come quelle che del corso dell’ultimo cinquantennio si sono diffuse in Europa.

A questo compito europeo è chiamato a rispondere anche il nascente Governo Draghi, originato dalla incapacità dei partiti post-ideologici di trovare una soluzione politica alla grave crisi di sistema in atto in Italia. Ernesto Galli della Loggia attribuisce la responsabilità e la diagnosi del fallimento degli attuali partiti alla deriva del trasformismo. Mentre Sabino Cassese preferisce assegnare la debolezza dei partiti, privi di radicamento storico e sociale, alla corsa verso il consenso e, perciò, generatori della sindrome della politica corsara. La ricerca del consenso costruito sulla emotività del momento non può dare, ai tempi della pandemia, una risposta dettata dalla sola competenza e dal coraggio, ma serve nel medio-lungo periodo una chiara visione politica.

Al Meeting di Rimini nell’agosto 2020, nella piena emergenza del Covid-19, Draghi pose al centro del discorso il tema del pragmatismo e della responsabilità, dell’Europa e dei giovani.

La mission dell’Istituto dei gesuiti Massimiliano Massimo a Roma, frequentato dal Presidente incaricato, è di formare dei leader nel servizio. Uomini e donne preparati, competenti e consapevoli, testimoni responsabili dell’essere cattolici nella società del loro tempo, con sensibilità e spirito di servizio. In questo speciale momento della crisi pandemica, in cui c’è il rischio che pochi si arricchiscono a scapito dei molti, a cui viene negato il benessere. Appare singolare ricordare il monito del professore Federico Caffè che amava insegnare agli allievi, e tra questi il giovane Draghi negli anni ‘70: “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili”. Quindi non più i numeri dei tecnocrati europei o la visione sovranista e patriottica dell’Italia, ma una piena e convinta linea europeista. Il contrasto al Coronavirus e la ripresa economica del Paese passano attraverso la emergenza più imminente, la campagna di vaccinazione per consentire la ripresa dei lavori e dei consumi e la gestione del Recovery Fund e dei relativi progetti. Le nuove generazioni hanno bisogno di crescere nella democrazia, di credere nella politica e soprattutto di avere speranza in un mondo migliore. La nascita degli Stati Uniti D’Europa è l’unico baluardo per sconfiggere definitivamente le differenze prodotte dalle disuguaglianze, dalla globalizzazione sfrenata e dall’oblio delle comuni radice storiche.