In un bellissimo saggio del 1973 intitolato “La protesta di Leopardi” il noto studioso e critico letterario Walter Binni forniva una nuova svolta e un nuovo corso nell’interpretazione dell’opera del poeta recanatese.
La personalità leopardiana appariva come fondata su “una radice di forza energica, di volontà di intervento a livello di problemi storici, culturali, letterari, esistenziali, di morale eroica variamente affermata e variamente operante”.
La personalità di Leopardi, anche quando “sembra cedere al peso degli scacchi e delle delusioni”, appare sempre vibrante, ricca di aspirazioni, sempre indomita rispetto ad una Natura matrigna.
La poesia leopardiana più intensa ed alta, lungi dall’essere interpretata solo nella sua visione “idilliaca” (come nella lettura di Croce e De Sanctis), viene completata e vivificata dalla forza della personalità del poeta, dalla sua fortissima coscienza morale, dalla sua tensione intellettuale e pragmatica.
L’esempio più alto di un “pessimismo energico” è rappresentato dalla sua ultima composizione “La ginestra”, scritta a Napoli, nella contemplazione della bellissima cornice del Golfo. A Napoli il poeta, ospite dell’amico Antonio Ranieri, giunge il 2 ottobre del 1833 e nella città trova affetto, accoglienza, solidarietà. Nella “dulcis Parthenope”, esprime tutta la sua creatività e pur essendo estraneo all’ambiente in una lettera al padre loda “la dolcezza, la bellezza della città, l’indole amabile e benevola degli abitanti”.
Ed è qui, che nella primavera del 1836, a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, compone “La ginestra” pubblicata postuma nell’edizione dei “Canti” del 1845.
Leopardi, ammirando il Vesuvio, riflettendo sulla forza terribile dell’eruzione del 79 d.C., della fine di Pompei ed Ercolano, osserva che né alberi, né fiori sopravvivono lungo le sue pendici ad eccezione di arbusti di ginestra “amante di luoghi tristi e abbandonati da tutti e sempre compagna di destini sventurati”.
Gentile, quasi afflitta dei mali degli altri, la ginestra sparge ovunque il suo profumo dolcissimo che consola il deserto intorno. Il monito di Leopardi è verso un’età superba e sciocca, che ha abbandonato la strada della rinascita del pensiero, volta a ritroso i suoi passi, che si vanta di andare avanti ma torna indietro. Solo il pensiero può risollevare l’uomo dalla barbarie medievale e contribuire al progresso della civiltà che guida verso il miglioramento del destino dei popoli.
Ma per fronteggiare la Natura maligna, il destino infelice a cui è destinato l’uomo, in un teatro naturale di una rappresentazione continua di distruzione e morte che ricordano all’uomo la sua fragilità, solo un atteggiamento positivo di cooperazione e solidarietà può salvare il genere umano. Ed allora i cespugli di ginestra, strettamente vicini uno all’altro, fortemente abbarbicati sulle rocce millenarie dello “sterminator Vesevo”, resistenti alla forza distruttrice della lava incandescente, sono esempio della vanità, della debolezza e del disperato bisogno di aiuto degli esseri umani. Da questa consapevolezza deve nascere il fiore della solidarietà. Nella resistenza ad un destino avverso, nella vicinanza agli altri, attraverso la cooperazione tra tutti i popoli.
Leopardi, non contesta gli ideali ottimistici e la sicura fede nella Scienza, gli acquisti della tecnica, ma spinge la riflessione un po’ più in là, nella stolta sicurezza degli uomini che essi possano eliminare la legge della prepotenza e della mediocrità e quella della Natura “empia madre”. L’uomo non può opporsi se non con la disperata consapevolezza della sua condizione e con la volontà eroica contro quella natura matrigna e contro le ideologie che la trasfigurano positivamente.
La cooperazione tra i popoli è la strada maestra da percorrere durante la difficile prova a cui l’Umanità intera è sottoposta.
La solidarietà fra gli uomini è l’autentica “certezza futura” che consente di vincere la battaglia e sconfiggere l’attuale pandemia, devastante e mortale.