L’annessione del Regno delle Due Sicilie con capitale Napoli da parte della Dinastia Savoia, come è noto, generò un movimento insurrezionale che si manifestò attraverso “insorgenze” diffuse nel Sud regnicolo e il fenomeno passato alla storia come “brigantaggio” meridionale.
Per la prima volta però, nella storia della nostra penisola sono apparse donne che si sono distinte anche in ambiti considerati tipicamente maschili, come i fatti d’arme collegati al brigantaggio e alla sua repressione ferocemente perseguita dai vincitori. In somma, le donne meridionali svolsero un ruolo non secondario quando i contadini meridionali parteggiarono per coloro che avevano preso le armi contro i Piemontesi, rei di avere conquistato ‘manu militari’ il Regno di Napoli retto da Francesco II di Borbone.
Non c’era infatti banda di briganti, piccola o grande, in cui il capobanda non avesse al suo fianco una donna che partecipava a marce estenuanti, notti all’addiaccio, assalti e ripiegamenti all’ultimo respiro, compresi gli scontri a fuoco e non raramente all’arma bianca. E, per regole ataviche non scritte, era rispettata e ossequiata. Non raramente anche temuta. Le Brigantesse vestivano con abbigliamento tipicamente maschile. Esse indossavano infatti pantaloni, camicie di tela, gilet e il tipico cappellaccio dei contadini montanari. Si dotavano quindi di cinturone, almeno di una pistola e un pugnale, tanto da confondersi spesso tra i briganti della banda. Ma a volte le Brigantesse risultavano più risolute e determinate dei loro compagni, dando prova di possedere una tempra che destava, nello stesso tempo, ammirazione e paura.
Nella storia sanguinosa e amara del Brigantaggio post-unitario meridionale parecchie di queste donne – che i Piemontesi sprezzantemente chiamavano ‘drude’ – dismisero il ruolo tipico della rassegnazione delle Donne meridionali, scegliendo di darsi anch’esse alla macchia e svolgendo un ruolo attivo nella rivolta contadina, che ebbe il limite di non incendiarsi tutta insieme ma piuttosto propagarsi. Molte di esse caddero in battaglia, altre affrontarono il carcere duro senza mai rinnegare la scelta fatta, altre ancora arrivarono a prendere il posto del proprio compagno a capo della banda continuando l’attività brigantesca.
Una pagina drammatica, dunque, nel dramma generale del Bel Paese unito per un disegno strategico tessuto abilmente dell’Inghilterra, allora potenza planetaria e gendarme del mondo, la quale seppe coltivare abilmente il dissenso antimonarchico confusamente diffuso tra le classi colte e “liberali” ante litteram della penisola italiana, che tendeva a divenire o almeno a sentirsi nazione – non più semplicemente “una espressione geografica” – pur essendo divisa in “stati” e “staterelli” che la Storiografia postunitaria ha codificato nel numero di sette. Il Ducato di Milano, il Ducato di Savoia, il Regno di Sardegna, la Repubblica di Venezia, La Repubblica di Genova, il Granducato di Toscana e, infine, i due stati forse allora più importanti in quel momento storico: lo Stato pontificio e il Regno delle due Sicilie, uscito dal cilindro del Congresso di Vienna e dalle ceneri dell’Impero di Napoleone Bonaparte, in una Europa estenuata e letteralmente dissanguata dalle guerre.
Tra le più note Brigantesse ci tocca ricordare quelle operanti nel Lazio meridionale, dove il brigantaggio come fenomeno malavitoso si era sempre tenuto vivo a spese soprattutto dei granturisti che già numerosi frequentavano le contrade e le strade a ridosso del confine tra lo Stato napoletano e lo Stato Pontificio. In quelle stesse zone, nel decennio post-unitario, il Brigantaggio raggiunse però punte di particolare intensità e violenza. Cominciamo dunque da Olimpia Cocco di Scifelli, l’amante di Luigi Alonzi, alias Chiavone, il celebre brigante di Sora. E a Sora si riunivano i filoborbonici per studiare piani di insorgenza e azioni di guerriglia. Fu così che Chiavone con il tempo fece della propria casa un quartier generale per gli insorgenti. Fino alla morte, decretata nel 1862 da un Tribunale straordinario con rito sommario.
Non dimentichiamo certamente Michelina De Cesare, compagna del brigante campano Francesco Guerra di Mignano Montelungo. Ne condivise anche la fine tragica nel 1868 quando Francesco cadde sul campo in battaglia e Michelina, ferita ma indomita, fu catturata dai soldati savoiardi. Questi, prima di passarla per le armi senza pietà, la sottoposero ad atroci sevizie e abusi. Il corpo nudo e martoriato di Michelina fu poi esposto al pubblico a monito di coloro che ne volessero seguire le orme.
In Calabria fu attiva Maria Oliviero, detta Ciccilla, che sposò Pietro Monaco, un soldato borbonico datosi poi alla macchia dopo la resa di Gaeta. La crudeltà di Ciccilla preoccupava gli stessi briganti che, dopo la morte del marito, la vollero a capo della banda. Catturata dai soldati savoiardi, fu messa in carcere e condannata a morte, ma la pena le fu poi commutata nel carcere a vita.
A San Vittore del Lazio era nata invece Maria Capitanio, figlia di un proprietario terriero, che si innamorò del Brigante Agostino Luongo condividendone la vita. Maria fu catturata nel 1868 e sottoposta a processo, ma fu poi prosciolta grazie a una cauzione pagata dal padre. Non riuscendo a vivere lontana da Agostino, rimasto in carcere, Maria si tolse atrocemente la vita ingoiando dei frammenti di vetro. Cristina Cocozza, amante di Bernardo Colamattei, brigante di Colle San Magno, fu catturata anch’essa dai piemontesi nel 1868. Colamattei allora si arrese, incapace di continuare senza Cristina.
Come si vede da questa breve cronaca, le “drude” non furono soltanto brigantesse ma anche figlie e compagne di uomini che avevano deciso di combattere gli ‘invasori’ nordisti. Alla fine, un dramma nel dramma che ha lasciato strascichi indelebili. Vivi forse ancora oggi nel profondo delle coscienze meridionali.