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Delocalizzazioni e licenziamenti: gli strumenti per una politica attiva – 2

by Pietro Spirito
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2. Le principali crisi aziendali tra chiusure e delocalizzazioni

La chiusura di Whirpool 

E’ il caso dello stabilimento Whirpool di Via Argine a Napoli: sono 4 i lavoratori che hanno accettato di trasferirsi nello stabilimento di Cassinetta di Biandronno con un bonus da 25 mila euro da utilizzare per trovare una nuova sistemazione in provincia di Varese, mentre gli altri 317 riceveranno una buonuscita di 95 mila euro: in cambio di questo accordo i lavoratori si sono impegnati a non impugnare i licenziamenti.

Dopo la chiusura dell’accordo, ora il punto diventa: il polo della mobilità sostenibile che dovrebbe insediarsi al posto della ex Whirlpool sarà in grado di partire? A fare da capofila del consorzio della mobilità sostenibile sarebbe la campana Adler con altre 54 aziende. Ma i contorni del futuro industriale di Via Argine non sono ancora chiari. Si vedrà.

La vertenza Embraco

Molto peggio sta andando ai 400 lavoratori della Embraco di Riva di Chiari: la trattativa era cominciata, quattro anni fa, con una offerta da parte dell’azienda di una indennità di licenziamento pari a 60.000 euro per ciascun lavoratore; ora l’ultima, irrevocabile offerta, è scesa a 7.000 euro.

Monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, si è espresso in questi termini “Un indennizzo di 7mila euro non rappresenta neppure un anno di lavoro. La proposta emersa in questi giorni per gli indennizzi ai lavoratori della ex Embraco mi pare, francamente, inaccettabile e vergognosa. Nella ripartizione del fondo (9 milioni di euro) vengono privilegiati imprenditori e fornitori, scegliendo esplicitamente di lasciare allo sbando i 400 lavoratori e le loro famiglie”. L’arcivescovo si è impegnato a pagare tutte le spese legali della vertenza, per consentire ai lavoratori di non dover anche sborsare i costi battaglia che si avvia verso una mesta conclusione.

GKN Driveline verso la chiusura

Dopo aver ritardato “l’avvio della procedura di licenziamento collettivo fino alla fine di novembre”, ora “siamo costretti a iniziare la procedura legale alla fine di questo mese”. Così Gkn Driveline Firenze in una lettera ai dipendenti della fabbrica di Campi Bisenzio, datata 26 novembre.

Lo scorso settembre il Tribunale del Lavoro di Firenze aveva bloccato la procedura poiché avvenuta in violazione dello Statuto dei lavoratori. La multinazionale, controllata dal fondo britannico Melrose, non demorde.

La vicenda è di recente finita anche al centro del caso del premio attribuito dalla rivista Tax&Legal all’avvocato Francesco Rotondi con la motivazione di aver condotto la procedura di licenziamento di 340 persone. Al danno si è aggiunta anche la beffa, considerato che, oltretutto, la procedura stessa è stata invalidata dalla magistratura.

L’azienda ha citato nella lettera con la quale è stato riavviato il procedimento di licenziamento l’esistenza di non meglio precisate manifestazioni di interesse da parte di investitori esterni, interessati a rilevare il sito produttivo e a realizzare i loro progetti imprenditoriali, volti a perseguire diverse opportunità in settori di recente affermazione, affini al mondo automotive e per i quali il futuro è più promettente.

Il piano di reindustrializzazione potrebbe potenzialmente, secondo l’azienda, garantire il mantenimento di nuove produzioni industriali nella zona e salvaguardare le opportunità di lavoro. Questo processo necessita tuttavia di tempi rapidi e di un contesto di concretezza dal punto di vista della proposta.

La Saga Coffee di Gaggio Montano

Il 5 novembre scorso la multinazionale italiana Evoca Group, controllata al 100% da un fondo americano, ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Gaggio Montano della Saga Coffee (ex Saeco) entro marzo 2022 con il trasferimento della produzione nelle altre sedi a Bergamo, in Spagna e in Romania.

Nei fatti la delocalizzazione, oltre a disperdere professionalità e competenze, lascia a casa senza stipendio 220 persone, in gran parte donne. Quest’ultime, infatti, compongono l’80% della forza lavoro, in un territorio che non offre molte alternative e che è reduce della crisi della Saeco di 6 anni fa, quando Philips dichiarò 243 esuberi.

La Tinken in Romania

Lo stabilimento della Tinken, 105 dipendenti per produrre cuscinetti per l’industria nel Bresciano, è entrato in crisi perché l’azienda ha dichiarato che intende delocalizzare la produzione in Romania. C’è un impegno della multinazionale americana per favorire una riconversione della fabbrica che salvi tutti gli operai se arriverà un nuovo investitore, ma la sostanza non cambia: l’unica concessione concreta è un anno di cassa integrazione.

La pandemia è stata il grande acceleratore di un fenomeno che purtroppo già si intravedeva prima. I casi aumentano perché ci sono trasformazioni epocali che interessano interi settori, come l’automotive alle prese con l’elettrificazione. Nella maggior parte dei casi non sono neanche delocalizzazioni in senso stretto.

Non vengono aperti nuovi impianti all’estero: fondi e multinazionali sostanzialmente non fanno altro che riorganizzare l’attività, spostando le linee produttive in fabbriche già esistenti per fare più profitti o spacchettare e rivendere.

La delocalizzazione di Riello

Riello, una delle aziende leader in Italia nel settore della climatizzazione, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Villanova di Cepagatti, in provincia di Pescara avviando la procedura di licenziamento per 71 lavoratori e lo spostamento di 19 addetti alla ricerca e sviluppo nella sede di Lecco e Legnago.

L’azienda, che fa parte del gruppo Carrier, ha annunciato che delocalizzerà la produzione negli stabilimenti nel nord Italia e in Polonia. “A seguito di un’attenta analisi del mercato che si presenta in rapida evoluzione e della competitività delle nostre operazioni, abbiamo deciso di interrompere le attività del nostro stabilimento di Pescara e di concentrarle presso altri impianti con capacità disponibile a Legnago (VR), Volpago del Montello (TV) in Italia, e Torun in Polonia.

Questa decisione ha lo scopo ottimizzare i nostri asset industriali e contribuirà a posizionare la nostra azienda per il futuro in un mercato globale sempre più competitivo. Siamo consapevoli dell’impatto di questo progetto sui dipendenti interessati. L’azienda – afferma Riello in una nota – si impegna a lavorare a stretto contatto con loro, i loro rappresentanti e le istituzioni in un dialogo attivo per sostenerli durante il progetto”.

La decisone dell’azienda avrà gravissime conseguenze per 71 lavoratori e per le loro famiglie, che rischiano di piombare nella povertà nel pieno di una pandemia e di una crisi economica senza eguali negli ultimi decenni. Per questo gli operai, e i sindacati più rappresentativi, stanno da giorni manifestando davanti allo stabilimento. I sindacati avevano lanciato un allarme nel mese di agosto, poco prima della chiusura per ferie, periodo nel quale la Riello aveva lasciato a casa dall’oggi al domani 49 lavoratori in somministrazione.

Fino al mese di luglio la produzione è stata corposa e in costante aumento, il settore di ricerca e sviluppo ha incessantemente contribuito all’introduzione di nuove tecnologie e gli operai hanno lavorato fino a coprire tre turni. Insomma, Riello è un’azienda tutt’altro che in crisi e la chiusura del sito abruzzese è sostanzialmente motivata dalla volontà di incrementare i profitti.

Il piano industriale della multinazionale mostra chiaramente come la produzione dello stabilimento abruzzese non cesserà, ma verrà solo frammentata e divisa. La costruzione degli scambiatori passerà a Legnago (Verona), la carpenteria pesante a Volpago del Montello (Treviso) e ovviamente, come in un noto cliché, l’attività di assemblaggio delle caldaie sarà trasferita in un sito in Polonia.