Le spiagge del Cilento per una volta non si affacciano agli onori della cronaca per il BLU delle bandiere che premiano il mare cilentano. Stavolta alla ribalta viene piuttosto un brutto fabbricato costruito ai piedi della Torre di Velia, l’antica Elea, vanto dell’archeologia magnogreca campana. La Torre di Velia, detta anche Torre della Bruca, è comunque una testimonianza medievale del sistema di difesa delle Torri costiere poi sviluppato organicamente su tutte le coste del Regno di Napoli dal Viceré Pedro di Toledo.
Molti giornalisti, che hanno riportato la cronaca di questi giorni prima di noi, hanno ribattezzato ecomostro il fabbricato, intanto ritornato alla ribalta perché ceduto a terzi che ne voglio fare un Resort di lusso con circa 150 camere e quant’altro. E anche perché un accentuato disboscamento in vista della ristrutturazione ne ha enfatizzato la visibilità nel paesaggio.
Noi aderiamo volentieri alla definizione, ma precisiamo subito che il brutto edificio, che si staglia come una palazzata alla base della collinetta eleatica in riva al mare cilentano, fu costruito con Licenza Edilizia per una iniziativa curiale del Vescovo Biagio D’Agostino, che fu fin dal 1956 e per circa un ventennio alla guida della Diocesi di Vallo della Lucania.
Il fabbricato fu edificato però negli anni Sessanta del Novecento. I favolosi anni Sessanta in cui l’Italia, uscita semidistrutta dalla guerra, si leccava ancora le ferite, ma cresceva a ritmi che oggi definiremo cinesi. Ai lettori basti sapere che in quei primi anni Sessanta le strade di Napoli erano ancora vigilate dalle ronde MP-Military Police, composte di due prestanti Marines e un Carabiniere, mentre le portaerei americane erano una presenza familiare – e allora rassicurante – al largo del porto di Napoli. Nel centro città intanto cominciava a stagliarsi in alto nel cielo il “grattacielo” dell’’allora in costruzione Jolly hotel, che contrassegnava il limite dell’area storica urbana del Ponte di Tappia e dei Guantai Nuovi. Quella stessa che era intanto stata rasa al suolo e stravolta, per una malintesa modernizzazione della città di Napoli.
Che dire in sintesi? Ebbene, semplicemente che quell’Italia e quella Napoli erano un altro mondo. E il Cilento – terra antica piombata nella frenetica realtà postbellica dalla sua culla naturale di arcaica penisola isolata dai traffici su gomma e su ferro – provava i primi brividi della modernità vacanziera.
Infatti, in quegli anni la vacanza marina – che allora si chiamava ancora villeggiatura – scopriva le coste incontaminate del Cilento. E Palinuro ospitava e alimentava il crescente mito internazionale del Club Mediterranee: un villaggio per vacanze di nuova concezione per l’Italia. Esso era fatto di tucul di canne, capanne di varie dimensioni che affollavano il sito costiero del ” villaggio”, ma risultavano rispettose dell’ambiente e del paesaggio.
Questa originaria e originale lezione di un insediamento turistico ecosostenibile in riva al mare rimase inascoltata. Anzi, fu spesso avversata dalla nascente imprenditoria locale, che a Palinuro e in altre zone del Cilento fu attratta dai “parvenus” della edilizia qualunque delle “seconde case” vacanziere, fatta di lottizzazioni disordinate e spontanee, senza servizi a scala urbana.
Risale dunque proprio agli anni Sessanta la edificazione dell’ecomostro della Torre di Velia.
Essa fu il frutto di una infelice decisione del vescovo del tempo che volle farne una colonia estiva per gli “addetti ai lavori” curiali. E all’epoca le polemiche furono accese, ma contenute dall’assenza di norme di tutela efficaci e inderogabili. L’ecomostro costruito ai piedi della Torre di Velia risultò alla fine un vero e proprio attentato alla costa cilentana, alla sua intima bellezza di mare per secoli incontaminato e alla essenza profonda di un territorio bello e appartato, poi offeso e travolto da una edilizia rozza e incolta.
L’assalto selvaggio alle coste cilentane in seguito fu interrotto fortunatamente dalla iscrizione al Patrimonio mondiale dell’UNESCO del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano con i siti archeologici e monumentali di Paestum, Velia e della Certosa di Padula. E, addirittura, la Dieta Mediterranea, intimamente legata alla zona, fu inserita nella lista dei beni del Patrimonio Immateriale UNESCO. Ciò avvenne però soltanto nel 1998 per iniziativa del Ministero per i Beni Culturali, attraverso la Soprintendenza di Salerno.
Pertanto, le polemiche odierne sono in un certo senso tardive e antistoriche. Il nuovo progetto è dell’anno 2019, cioè recentissimo. Ma non si capisce perché’ il Comune e la Soprintendenza competente per il Parco del Cilento non abbiano trovato una intesa per spingere il privato imprenditore a ripensare l’intervento, in modalità più rispettosa per l’ambiente e il paesaggio. Forse troppo impegnati dalle sagre estive cilentane? Intanto piovono anche interrogazioni parlamentari. Per quel che servono…
Si pone invece la necessità di una riflessione, anche in considerazione del PNRR, in cui si prefigura una spesa straordinaria in tutti i settori. Per le aree UNESCO – almeno per esse – si valutino le possibilità di ricorrere alla teoria economica della DAP, acronimo che sta per “disponibilità a pagare”. Tali aree, o almeno i loro siti più degradati, dovrebbero dunque essere risanate e liberate da ecomostri e insediamenti incongrui, pesantemente punitivi per la Collettività, che ha il diritto/dovere di farsi carico dei costi ella loro eliminazione.
La Collettività, nazionale e internazionale, eserciti insomma il recupero dei valori perduti. Essi, in anni passati e lontani, sono stati veri e propri vulnus per i valori paesaggistici e ambientali del nostro Belpaese, ove “fioriscono i limoni” e “brillano tra le foglie cupe le arance d’oro”, per dirla con Goethe.