Non vi sembri irriverente il paragone, ma un riferimento più prossimo per Pompei non lo trovo, se non vado indietro nel tempo di circa 150 anni. Fu allora che l’avvocato pugliese Bartolo Longo – giunto da poco a Valle di Pompei per fare l’amministratore della contessa De Fusco – organizzò una riffa, una specie di lotteria paesana. In quella occasione e poi per decenni, Bartolo Longo fu coadiuvato da numerosi Valpompeiani e in particolare da un suo fidato sodale, un suo amico cacciatore, incontrato per caso qualche tempo prima tra i pioppi che punteggiavano le sponde del Sarno. Era il giovane prete Gennaro Federico, fotografo e disegnatore, primo parroco della Parrocchia del SS. Salvatore nato a Valle di Pompei. Poi tesoriere delle elemosine raccolte dall’avventura profetica di Bartolo Longo, uomo e manager straordinario, sensitivo e visionario, questuante disinteressato a dimensione planetaria. La riffa paesana attrasse però in massa i non molti abitanti del posto, che si chiamava ancora Valle di Pompei, una località così denominata per la sua vicinanza agli scavi pompeiani, già allora famosi in tutto il mondo. Però da quel momento i Valpompeiani si ritrovarono finalmente un po’ tutti dalla stessa parte: partecipare a una riffa per mettere insieme una somma autofinanziata da destinare alla loro chiesetta. La chiesetta, di modeste dimensioni ma di antica storia, era stata ubicata al centro di un territorio agricolo appartenente a ben quattro comuni differenti. Là dove è poi sorto l’odierno Santuario di Pompei. Ancora verso la fine dell’Ottocento però la zona era la somma geografica di quattro periferie agricole estreme dei comuni di Torre Annunziata, Boscoreale e Gragnano, nella Provincia di Napoli, e Scafati nella Provincia di Salerno.
I Valpompeiani, quindi, erano divisi tra quattro comuni e due province. E addirittura tre diocesi diverse: Nola, Sarno e Castellammare.
I Valpompeiani insomma, si trovavano a vivere in una somma di separatezze: geografiche, amministrative, religiose e, quindi, civiche. La riffa paesana – finalizzata ad un unico scopo, il restauro della chiesetta del SS. Salvatore – innescò la prima forma di coesione civica. Anzi creò la piattaforma su cui essi coesistevano come abitanti dello stesso luogo.
Ma ci volle più di mezzo secolo ancora – dopo l’arrivo di Bartolo Longo a Valle di Pompei nel 1872 – affinché i Valpomeiani, divisi tra Torresi, Scafatesi, Boschesi e Gragnanesi, si ritrovassero ad essere i cittadini fondatori della nuova Pompei.
Questa digressione storica e amministrativa mi è servita a introdurre il discorso che sono costretto a ripetere in ogni sede in cui si lamenta la scarsa coesione civica – nulla, secondo i più pessimisti – dei Pompeiani d’oggi, quelli del terzo millennio, eredi dei Valpompeiani che soltanto poco più di novanta anni fa, in pieno Novecento, poterono dirsi Pompeiani cittadini del Comune di Pompei, istituito nel 1928.
Durante il “Secolo breve” e dalla fondazione del Comune ad oggi, i Pompeiani hanno affrontato la tragedia della Seconda guerra mondiale e la lotta tra fascismo e antifascismo, la fine della monarchia, la nascita della Repubblica, la guerra fredda, il boom economico degli anni Sessanta e gli anni Settanta di piombo e di sangue. E infine, la crisi della cosiddetta prima Repubblica e la seconda o la terza Repubblica di questi ultimi decenni attraversati dalla crisi dei valori. Non poco, vi pare? La identità civica poteva aspettare. Intanto i Pompeiani sono stati “ibridati” dall’apporto fecondo – ma certamente ritardante sul piano della coesione civica – di interi nuclei familiari provenienti da altri paesi e zone della Campania e anche da altre regioni del meridione d’Italia, Basilicata e Calabria sopra tutte. Essi erano attratti da scavi e santuario, motori di economia e lavoro. Un fluire arrestatosi soltanto con l’adozione e il rapido esaurimento del piano regolatore comunale, che ha generato addirittura il fenomeno inverso. Cioè l’emigrazione da Pompei – verso Scafati soprattutto, ma non solo – di Pompeiani attratti da più miti condizioni del mercato immobiliare. Anche questo fenomeno, soltanto pompeiano, non è da poco, vi pare? Questo lungo excursus mi è servito a mettere ancora una volta un po’ di chiarezza sulla origine della scarsa coesione civica dei Pompeiani. Non ho però dimenticato la riffa di Bartolo Longo e del suo aiutante valpompeiano. Ora posso rimediare accennando subito al fenomeno nascente che più da vicino mi ricorda la vicenda della riffa longhiana dell’Ottocento. Mi riferisco al Jazzit in preparazione a Pompei per iniziativa dell’associazione Civitates. Nessuno storca il naso. E vi dico anche che Il Jazzit – che ormai impazza sui social, sulla stampa locale e nazionale, nell’imprenditoria pompeiana e nel cuore dei Pompeiani giovani e vecchi – intende, attraverso tre giorni di musica della fine di giugno 2019, autofinanziare una ludoteca. L’inventore e propulsore del fenomeno civico ormai nato e in corso è Luciano Vanni, un giovane toscano di Livorno, affabulante, ma di suo immaginifico e visionario come il profeta della riffa. E anche grande e disinteressato questuante. Non è un accostamento blasfemo, né vuole esserlo. La storia si ripete, dopo un secolo e mezzo. Luciano Vanni già gode della totale fiducia di tanti aiutanti locali, Pompeiani autentici, attivati anche dall’incessante impegno dell’imprenditore pompeiano di eventi a grande rilevanza Pasquale Di Paolo. Del Jazzit e di tutti gli altri protagonisti – che meritano menzione – parlerò in un prossimo articolo.
Per ora mi godo questa identità civica nascente della Terza Pompei. Anzi, ormai nata.