Quanta gente in sala per sentire Massimo D’Alema giovedì scorso a Napoli. Eppure non era, almeno sulla carta, un incontro squisitamente politico. Men che meno elettorale. Si trattava di presentare il nuovo numero della rivista Italianieuropei, la Fondazione che fa capo appunto a D’Alema, dedicato ai “Trent’anni dalla caduta del Muro. Le promesse mancate della democrazia”.
Francamente non ci aspettavamo tanta affluenza. Neanche D’Alema, che nell’incipit del suo intervento ha notato che “c’è un pubblico che va oltre i confini del dibattito culturale, anche se io mi terrò dentro questi confini”. Probabilmente neanche gli organizzatori, che hanno scelto una location prestigiosa ma che ha sofferto sotto la pressione della folla. Traffico per salire le scale. Ingorghi per entrare nella sala. Ressa anche nei locali antistanti. Una bella, sentita partecipazione.
Determinata certamente dal livello dei relatori. Forse anche dall’aspettativa, andata delusa, di ascoltare qualche giudizio sull’attuale Governo o magari sulle prospettive immediate, concrete, della sinistra italiana. O forse, più semplicemente, l’argomento “tira”, l’autorevolezza di Italianieuropei è conclamata e la realtà napoletana è meno asfittica di quanto appaia.
Un parterre di astanti particolarmente qualificato. A cominciare da Bassolino. E poi Arturo Scotto, Raimondo Pasquino, Mario Coppeto, Mario Hubler, Guglielmo Allodi e tanti altri che nella calca non siamo riusciti a salutare. Unica nota dolente: pochi giovani. Uno dei quali ha rubato un selfie con D’Alema. Che si è prestato, ma con espressione sofferente. Come non essere solidali con lui.
La sua relazione è partita da un assunto: che le democrazie sono in crisi e che è una crisi dell’Occidente. E però “in questi trent’anni la ricchezza del mondo è cresciuta quasi quattro volte rispetto al passato e alcuni miliardi di esseri umani sono usciti dalla povertà. Questo trentennio non può essere considerato fallimentare”. Tuttavia, la convinzione che la caduta del muro di Berlino avrebbe consentito l’espansione del modello occidentale, si sarebbe rivelata fallace. “Al contrario, vediamo un mondo che si è ulteriormente diviso. Sono stati costruiti nuovi muri. Sono nati nuovi conflitti”.
Questo perché la politica sarebbe rimasta confinata nella dimensione nazionale, mentre l’economia sarebbe diventata globale. Sarebbe venuta, cioè, meno la capacità degli Stati di regolare lo sviluppo capitalistico. Di redistribuire la ricchezza. Di assicurare giustizia sociale. Da qui, la vittoria dell’antipolitica e la distruzione dei partiti, nel miraggio della democrazia diretta.
In questo quadro, esisterebbero precise responsabilità della classe dirigente progressista degli anni ‘90, che avrebbe mancato alcune riforme fondamentali. Anzi, sarebbero stati proprio i progressisti a promuovere un’estrema liberalizzazione, nel convincimento che la politica dovesse solo accompagnare il processo di crescita. “Un’operazione che si potrebbe definire di disarmo unilaterale”.
Dal canto suo, Andrea Orlando ha citato un famoso motto anglosassone: “i tecnocrati governano, i capitalisti decidono e i politici vanno in televisione”. Questa sarebbe la politica al tempo dell’antipolitica.
La paura del comunismo portò il grande capitale a concedere di più in termini di costruzione delle regole. Superato il pericolo, “il mercato viene sostanzialmente ideologizzato”. In Italia, si afferma l’idea che è meglio il privato del pubblico. Un nuovo impianto culturale, che vede l’egemonia del pensiero liberale sul pensiero solidaristico.
Bisogna abbandonare l’idea di politica che rinuncia a qualunque tipo di intervento, che sostanzialmente si confessa impotente rispetto ai processi reali. Bisogna trovare soluzioni valide. Bisogna restituire allo Stato gli strumenti di cui si è privato nel corso del tempo.
Una bella occasione di confronto, interessante e non banale. Magari si è avvertita un po’ di nostalgia. Del vecchio dirigismo di Stato, dell’IRI, del PCI. Con un tocco di autoreferenziale amarcord. Nel merito, forse non sarebbe stato inutile ricordare che le contraddizioni interne del sistema di produzione capitalistico non sono sanabili con un decreto legge. Anzi, non lo sono affatto. Ma cosa sto dicendo? Questo è Marx!