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Dal Sing Sing del MANN all’Albergo dei Poveri

by Federico L.I. FEDERICO
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Il Sing Sing Corretional Facility è un carcere americano degli States situato a una cinquantina di chilometri da New York. E’ più noto semplicemente e volgarmente come Sing Sing, perché prende il nome dalla Tribù dei nativi indiani dei Sinck Sinck che nell’anno 1685 cedettero la vasta area in cui è ubicata la struttura penitenziaria. Cosa c’entri il famigerato carcere Sing Sing con il glorioso Museo Archeologico Nazionale di Napoli, oggi in sigla MANN, è una storia lunga un quarto di millennio, che va raccontata.

L’attuale MANN nacque dalla intuizione di Don Carlos di Borbone, Re di Napoli e di Sicilia dall’anno 1735, di promuovere l’esplorazione archeologica delle città vesuviane sepolte dall’eruzione del 79 d.C., iniziata a Ercolano, poi estesa circa un decennio più tardi a Pompei, nel 1748, alla ricerca di Stabia. Re Don Carlos volle però dotare generosamente l’amata Città di Napoli di un Museo, trasferendo nella capitale del Regno di Napoli parte delle due grandiose collezioni ereditate dalla madre Elisabetta Farnese, nelle residenze materne di Roma e Parma, nonostante la forte opposizione del Papa a Roma. Richiamato don Carlos a Madrid per le esigenze della Corona di Spagna, dove assunse il nome di Carlo III di Borbone-Parma, toccò al figlio Ferdinando IV, suo successore a Napoli nel 1759 (il futuro Ferdinando I delle due Sicilie, nel 1816) completare l’opera iniziata dal padre.

Ferdinando I procedette dunque a riunire, nel 1787, le collezioni farnesiane dalla Reggia di Capodimonte al nascente Museo “napoletano”. Lo stesso Ferdinando, successivamente, fece confluire nel Museo “napoletano” anche la raccolta di reperti “vesuviani” – in massima parte provenienti da Ercolano e Pompei – intanto già esposta nel cosiddetto Museo Hercolanese all’interno della Reggia di Portici.

 

 

 

L’edificio del Museo era sorto già nella seconda metà del 1500 ed era stato destinato a Cavallerizza e Caserma di Cavalleria. Ma poi la struttura equestre fu abbandonata perché le ricche sorgenti di indispensabile acqua dolce che la alimentavano si erano inaridite, forse per frane o movimenti tellurici. Dopo qualche decennio, nel 1612, quell’edificio fu quindi destinato a Palazzo degli Studi per oltre un secolo, poi abbandonato per eventi sismici e oggetto di ripristino architettonico dopo l’arrivo di Don Carlos a Napoli.

Ma torniamo al nostro Sing Sing perché, fin dal nascere del Museo “napoletano”, si pose l’esigenza di custodire in appositi luoghi, al sicuro dai ladri, il gran numero di reperti ripetitivi o ritenuti di minor pregio o anche bisognosi di restauro. Non potendosi però utilizzare gran parte dei locali sotterranei dell’edificio, occupati da fanghi provenienti da monte e da detriti prodotti dai lavori, furono scelti i sottotetti come luoghi elettivi e più sicuri per il deposito dei reperti archeologici. E così i reperti archeologici, come affreschi, statue, mosaici, pezzi rari unici e copie di grande valore si andarono accumulando, incontrollatamente e a migliaia, provenienti non solo da Ercolano e Pompei, ma anche praticamente da gran parte del Sud dell’Italia. Alla fine, gli oggetti esposti nelle tante sale museali comunque sempre affollate di oggetti, oltre seimila in tutto, erano mediamente meno di un terzo di quelli custoditi nei depositi, circa ventimila. Tra essi reperti di grande valore ignoti o dimenticati, comunque negati ai normali visitatori, custoditi per decenni in un corridoio lungo il quale si susseguono camere chiuse con sbarre, catenacci e, in tempi più recenti, vigilate da impianti antifurto.

 

 

Oggetti d’arte sì, ma prigionieri. Come a “Sing Sing”.

La prospettiva della esposizione di tali reperti archeologici negli sterminati spazi dell’Albergo dei Poveri è ormai divenuta una certezza. Lontani e passati sono gli echi delle parole dell’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini – divulgate da Osanna, fresco di Direzione Generale dei Musei statali italiani – circa la allocazione della Biblioteca nazionale nel Palazzo d Piazza Carlo III. Oggi Osanna parla della realizzazione di un Museo Pompeiano, esteso per più ottomila metri quadri, con almeno venti sale, bookshop, caffè e una terrazza panoramica al quinto piano. Esso dovrebbe occupare ben due ali dell’edificio e ospitare i preziosi reperti prelevati dai depositi Sing Sing del MANN, oggi chiusi al pubblico. E questa soluzione sarebbe già una questione da trattare coralmente con i responsabili delle Soprintendenze meridionali, in passato grandi tributarie dei depositi del Museo Archeologico napoletano. Ma Osanna aggiunge che la ospitale e variegata location dell’Albergo dei Poveri dovrebbe diventare “(…) un luogo dedicato alla storia della riscoperta dei siti vesuviani, attraverso reperti, ma anche ricostruzioni, pannelli e supporti multimediali”. Più chiaro di così…

Evidentemente i centri urbani del comprensorio vesuviano – che vivono da sempre in speciale simbiosi con il Vesuvio – sono considerati una mera “espressione geografica”. E’ già sufficiente che esistano fisicamente come Centri urbani. E ad essi, dunque, può essere impunemente negata la Storia di quest’ultimo quarto di millennio. Anche quella raccontata senza reperti…

Al Ministro napoletano spetterà l’ultima parola?