Lo Statuto Albertino non fu abrogato. Durante il ventennio fascista ne furono sospese le norme a tutela delle libertà individuali e collettive, a motivo dell’emergenza socio-politica post guerra, si disse. Punto. Il fascismo, sotto il rispetto giuridico costituzionale fu un lungo stato d’eccezione, varato da un governo democraticamente eletto e promulgato dal capo dello stato, cioè da re Vittorio Emanuele III.
Analogamente accadde dieci anni dopo in Germania, dove la Costituzione di Weimar non fu mai formalmente abrogata. Hitler raggiunse il potere a seguito di libere elezioni, quindi, ai sensi dell’art. 48 di detta Costituzione – che consentiva al capo del governo di “prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica” senza specificarne i limiti temporali e fattuali – sospese le garanzie costituzionali per motivi di emergenza nazionale.
Fa perciò un po’ specie constatare che la nostra tanto amata e decantata Costituzione della Repubblica Italiana, pure scritta con l’inchiostro intinto nel sangue dei circa 450mila italiani – tra militari, civili e resistenti – caduti a causa della guerra, non contenga un solo articolo che definisca e regolamenti l’eventuale proclamazione dello stato di emergenza nel nostro paese. L’unico riferimento rinviabile ad una casistica emergenziale è l’art. 77, laddove si autorizzano i Governi a emanare decreti-legge “in casi straordinari di necessità e di urgenza”, con la precisazione che essi “perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione”.
Questa dei decreti-legge è una prerogativa, come si sa, ampliamente usata ed abusata dai governi repubblicani, il più delle volte al mero fine di superare le lungaggini delle procedure parlamentari vigenti, senza alcuna colleganza a stati di emergenza o di eccezione di sorta. Per converso si è dato anche il caso che norme, varate in un clima genuinamente emergenziale, siano poi restate nel corpo della nostra legislazione, com’è nel caso delle leggi volte a contrastare il terrorismo degli anni di piombo, o la mafia negli anni ‘80-’90.
Fatto sta che la nostra costituzione non norma lo stato d’eccezione in quanto tale, un vulnus importante da parte dei costituenti. Una lacuna seria, rimarcata recentemente finanche dalla presidentessa della Corte Costituzionale, prof.ssa Marta Cartabia. Nel ‘92 il legislatore ordinario vi pose parziale rimedio con la Legge 225, istitutiva della Protezione Civile Nazionale, che all’art. 5 definisce i contenuti dello stato d’emergenza, indica i soggetti detentori della potestà di dichiararlo, e ne delimita i limiti temporali di vigenza in 180 giorni prorogabili per altri 180. Ma la 225/92 è una legge ordinaria, non una norma costituzionale. Per modificarla basterebbe una maggioranza semplice in parlamento. Non è un dettaglio da poco. E se una maggioranza parlamentare votasse per una durata temporale maggiore? Che so, e per assurdo, per un ventennio?
Ma i costituenti non furono imprevidenti solo sotto questo rispetto. Lo furono altrettanto nel demandare le norme elettorali a leggi ordinarie, modificabili a maggioranza semplice e che entrano in vigore a quindici giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Le forze politiche tutte del nostro Paese ci misero qualche decennio e, a fine secolo, realizzarono che è molto comodo modificare le norme elettorali alla vigilia delle elezioni, plasmandole secondo le convenienze delle maggioranze del momento. Il caos che ne è derivato dal ‘92 ad oggi è tangibile. Un caos che ha concorso pesantemente alla disarticolazione e decadenza dei partiti. È appena il caso di dire che, per lo meno su questo punto, la sfortunata riforma Renzi-Boschi correggeva il vulnus. Sia detto sottovoce, quella era una gran bella legge di riforma; aveva però un neo insormontabile, i suoi proponenti, ed è stata bocciata.
Fin qui abbiamo detto di due rilevanti inavvedutezze dei costituenti. Ad aggiungere confusione a confusione ci hanno poi pensato i neo-costituenti del 2001, nell’unico tentativo di riforma costituzionale andato finora a buon fine, quello della riforma del Titolo V. Quanto tale riforma sia stata “lungimirante” lo abbiamo visto nella pandemia, con la sovrapposizione caotica di poteri e competenze tra Stato, Regioni e Comuni, fonte lampante di sbandamento tra i cittadini, chiamati a destreggiarsi tra indicazioni e divieti spesso tra loro contrastanti.
Ce n’è abbastanza per tenere le antenne dritte sui rischi per la nostra democrazia.