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Con “ACQUATA” o “PIQUETTE”, comunque: cin cin!!

by Federico L.I. FEDERICO
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Quest’anno 2023, a Gennaio, presso il “Galoppatoio Reale” della Reggia di Portici, si è tenuta la celebrazione dei 150 anni della fondazione della antica “Scuola Superiore di Agricoltura”, oggi “Dipartimento di Agraria” dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Nella stessa occasione è stato poi presentato il restauro dei saloni della Reggia, riaperti al pubblico proprio in occasione della cerimonia, recuperati dopo decenni di abbandono o pessimo impiego di tali grandi risorse monumentali borboniche.

La “Scuola Superiore di Agricoltura” di Portici infatti fu fondata nel 1872, con sede all’interno della Reggia Borbonica, ottenuta in proprietà dalla Provincia di Napoli, come uno scalpo.

Essa fin da subito costituì però un importante punto di riferimento per tutto il Sud.

Alla Scuola Superiore di Agricoltura insegnarono giganti delle scienze agrarie, come il Sannita Nicola Antonio Pedicino, fondatore dell’Orto Botanico di Napoli, e l’umbro/porticese Filippo Silvestri, entomologo di fama mondiale, che estese i propri studi e interventi fino alle Isole Hawaii, contro la loro “mosca della frutta”.

Insomma, la fama internazionale della Scuola di Portici fu tale che la portò ad essere incorporata nel 1935 – in epoca fascista, tra i mugugni di numerosi docenti – nel complesso delle sedi universitarie dell’Università degli Studi di Napoli.

Fu così che a Portici venne istituita la Facoltà di Agraria.

Mio padre, allievo tra i prediletti da Filippo Silvestri, si laureò in Agraria a Portici negli anni Venti del Novecento, presso l’allora ancora Scuola Superiore di Agricoltura.

In età avanzata, quando i vecchi riprendono ad aprirsi ai figli, mi raccontava dell’Acquata, un “vinello beverello” che suo padre, piccolo/medio proprietario terriero, produceva con significativo successo già nell’Ottocento, nelle campagne settentrionali di Pompei, le quali – a volerla dire tutta, senza mandarla a dire – non sono state mai proprio vocate per la grande vinificazione, né dunque per grandi vini.

I destinatari dell’Acquata però, in quell’epoca ormai remota, erano generalmente braccianti, mezzadri e coloni. Il Vino da cui si traeva l’Acquata – un sottoprodotto del Vino dunque – rimaneva a chi lo produceva, visto che mercato per l’Acquata non ce n’era, dal momento che le Vinacce, cioè i residui della produzione del Vino, erano la materia prima da cui si traeva l’Acquata.

Clienti fissi ed estimatori dell’acquata però, erano anche i “carrettieri”, i quali trasportavano – sui loro “carretti” dalle grandi ruote cerchiate dai fabbri – derrate e prodotti su è giù per l’agro pedevesuviano, il quale declina dolcemente, immergendosi nella piattezza della campagna dell’agro pompeiano, sempre più valliva, fino all’area del Polverificio Borbonico di Scafati, in riva al Sarno. Il suo Parco verde monumentale dovrebbe accogliere i vitigni del Vino Pompeiano, messi a dimora su un’area fluviale golenale, bonificata con terreno di riporto. Insomma, l’acqua risulta troppo vicina al vino.

E il vino pompeiano appare una scommessa non di poco momento.

Diverso è invece il versante settentrionale di Pompei, nell’areale di Tre Ponti e del Rattapone, dove un giorno si produceva onesto vino da pasto e dell’ottima Acquata.

Non si dimentichi infatti che Pompei, sia quella antica che quella moderna, si trova sulla destra idraulica del Sarno. Ed è così da millenni, fin dalla fondazione osco(sarrastra?) di Pumpèia sull’altopiano lavico della collina della Civita.

Colà poi si sviluppò la Pompeii romana, dopo la sua resa a Roma dell’anno 89 a.C., a oltre sette secoli dal primo insediamento. Sotto il dominio di Roma Pompei restò per poco più di un secolo e mezzo, fino all’anno 79 d.C., in quel giorno della tarda estate o del primo autunno. Lasciamo agli specialisti il distinguo.

Per la storia di Pompeii e dell’ager quello fu un giorno comunque fatale.

Torniamo però all’Acquata, che abbiamo appena visto essere una antica “bevanda vinosa” delle nostre contrade e del Meridione d’Italia.

I Francesi ovviamente – che si sentono i Re del vino europeo – dopo avere ignorato l’acquata per secoli, ce l’hanno copiata. E oggi producono e vendono infatti sul mercato internazionale un suo clone, che diremmo nello stesso tempo sbiadito e imbellettato alla Francese.

Non è sua Maestà il Vino, ma la sua Regina Consorte, la “Piquette”!!

 

 

La Piquette, dal nomignolo accattivante, nasce con il fine di essere una bevanda fresca e dissetante, poco alcolica, fatta con elementi di risulta dalla vinificazione, o anche direttamente da vitigni di uve deboli, che per secoli sono state “rafforzate” dai vini pugliesi e siciliani. Chi – tra i lettori con i capelli bianchi, o almeno brizzolati – non ricorda i “vignerons” francesi e le loro proteste degli anni pre-UE, contro i vini italiani invasori, alzi la mano.

La Piquette francese oggi è prodotta (anche) dalle vinacce già precedentemente usate per la produzione di un vino. Così, ciò che resta di una fermentazione già avvenuta viene ri-spremuto e ri-unito ad acqua e zucchero o ad altre sostanze zuccherine, non escluso il “miele non miele” cinese, che – come si sa – è prodotto con lo zucchero.

Ri-parte a questo punto una ri-fermentazione, lieve e breve, ma necessaria alla produzione della modesta quantità di alcol poi presente nella Piquette, la quale risulta così una bevanda lievemente alcolica, prodotta dalle bucce delle uve, recuperate e “condite” con acqua (meglio calda, come usava mio nonno) e residui di mosto e vinaccioli.

Intanto oggi la Piquette e altre simili bevande vinose spopolano negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone, ma già l’Acquata italiana – grazie a Vignaioli di gran fiuto – sta facendo passi giganteschi nell’inseguimento dei “quasi vini”.

La nostra Acquata, almeno quella meridionale, diversamente dalla Piquette, ha origini antichissime, mediterranee, di una terra avara, di cui il contadino non “buttava via niente” di tutto quel poco che riusciva a produrre.

Durante il lavoro nei campi, l’Acquata veniva consumata insieme con la povera colazione mattiniera, o i frugali pasti, che il poco alcol dell’Acquata rendeva più gradevoli e leggeri.

E già nel Settecento, un monaco della Capitanata, dal nome tipicamente regnicolo (non certo altoatesino), tale Manicone, in un suo trattato ricordava che Ippocrate, il grande medico greco del quinto secolo a.C., consigliava l’Acquata come antipiretico nei casi di febbre alta. In generale però l’Acquata, di rapida beva, veniva consumata tradizionalmente nei mesi preinvernali, tant’è che era nota anche come ‘o vino d’ ‘e muorti, senza bisogno di particolari scongiuri.

L’Acquaticcio, che si produce ancora nelle aree di frontiera del Regno di Napoli, è invece un parente stretto, ma povero, della Acquata, come fa intendere la stessa parola, che indica un vinello leggero marchigiano, che prevede anche acqua nel vino e che si consuma durante la vendemmia e fino alla spillatura del vino nuovo.

Insomma, possiamo concludere che il CIN CIN !! – con Acquata o Piquette – è assicurato.

Ma non ci basta, in quanto noi ci domandiamo perché e come mai i tempi della gara del Vino Pompeiano del Parco Archeologico di Pompei, tanto strombazzato nella fase di partenza della gara stessa – il cui bando di gara internazionale è scaduto da circa un anno – si siano dilatati in tale misura, del tutto anomala. Eppure il Bando Internazionale ha prodotto adesioni che si contano sulle dita di una sola mano…