In quel giugno del 1970 eravamo ragazzini ma poi neanche tanto. Con i miei 16 anni e a scuole chiuse ormai vivevo, diciamo così, piuttosto per la strada. Di giorno il pallone, la sera al bar o in qualche festa da ballo in casa. E quel giugno c’era in più l’aria elettrizzante del mondiale messicano. Erano già anni d’impegno e manifestazioni. Quelli precoci come me già da alcuni anni ne erano coinvolti. Da noi, anche a differenza di altri Paesi, il ‘68 è durato almeno per dieci anni. Si immagini il clima che c’era d’intorno appena due anni dopo. L’atmosfera contava più delle cose strutturali, che forse già marcavano il segno. La musica, i gruppi italiani più sperimentali, le grandi band straniere. La stessa passione per i calciatori più ribelli ed estrosi. Da George Best a quel Gigi Meroni cui un’automobile aveva spezzato le ali appena tre anni prima.
Eppure quel giugno tiepido e carico di promesse portò con sé il fascino di quel mondiale. Avevamo, oltre agli eterni Mazzola e Rivera, Gigi Riva, che allora era un semidio. E quella semifinale la vivemmo in gruppo al bar del paese. Ormai ai supplementari non avevo più nemmeno la camicia. Come si può essere scanzonati e felici a quella età, guardando la tua squadra in TV, dopo che la mattina sei stato in spiaggia con la fidanzatina di turno. Solo a ripensarci viene la pelle d’oca.
Fu quello il contesto in cui di fatto scoprimmo il Kaiser Beckenbauer. Ragazzi che impatto! Che fosse un grande calciatore lo avevamo già orecchiato. Allora non si vedevano tante partite in TV come adesso. Ma la forza di quell’elegante giocatore aveva già bucato la dimensione della grande popolarità.
Avevamo in quegli anni antenne particolari per scovare i grandi talenti esteri. Cruijff e la valanga arancione sarebbero arrivati un po’ dopo, ma intanto nel sessantotto ci eravamo innamorati del pallone d’oro Best. Quel fantasioso irlandese con basettoni e capelli lunghi che spopolava nell’Inghilterra dei Beatles e Mary Quant.
La maestosa solennità di quel giocatore tedesco però quella notte colpì ogni nostra immaginazione. Vero, fu sconfitto, ma con quel braccio fasciato attaccato al collo rivelò a noi e al mondo il gigante che era. Fuoriclasse e leader. E con un passo di danza insieme imperioso e lieve, come mai ci avevano abituati i calciatori tedeschi. Anche il suo volto, per quanto autorevole, era fuori dagli stereotipi del panzer tedesco. Franz Beckenbauer era un faro che davvero sembrava emanasse luce. Inevitabile che uno così vincesse tutto in campo e fuori.
Sul campo era difficile da classificare. Certo era un difensore, anche però un centrocampista e regista di rara classe. E però andava anche a rete con la semplicità del grande attaccante. Come ha detto Bonimba Boninsegna (il Bonimba glielo affibbiò Brera per via della statura e del sedere basso), Franz era un giocatore totale, e per farsi capire meglio Bonimba ha aggiunto: un misto tra Rivera e Scirea.
Eroe dei due mondi quando – dopo aver vinto tutto in Europa e in patria – diviene con Pelè e pochi altri icona globale andando a giocare negli Usa.