Scalpitano le regioni del Nord per cavalcare le proposte governative sulla autonomia differenziata. Frenano le regioni meridionali, preoccupate per la bozza di disegno di legge presentata dal Ministro Calderoli, che include anche l’istruzione tra le materie oggetto della riforma ed esclude la definizione dei livelli equivalenti di servizio (LEP) prima di passare alla fase attuativa delle ulteriori deleghe ed autonomie alle regioni.
La discussione che si è aperta all’avvio della nuova legislatura rischia di essere l’ennesimo elemento divisivo sulla strada di riforme istituzionali che, sino ad oggi, hanno partorito topolini pericolosi per il futuro della efficacia e della efficienza nella organizzazione dello Stato.
Conviene fare qualche passo indietro per dare un senso alla discussione attuale. Le regioni sono entrate nel nostro ordinamento in modo contrastato e con molto ritardo. Ufficialmente le Regioni italiane nascono con la Costituzione della Repubblica del 1948, e vengono modificate nel 1963 con la creazione del Molise e del Friuli-Venezia Giulia. Ma fino al 1970, quando furono per la prima volta eletti i consigli, non è esistito nessun potere regionale.
Il primo ventennio di storia istituzionale delle regioni consente non solo di dare attuazione al dettato della carta costituzionale ma anche di dare accesso al governo delle istituzioni locali alle forze politiche che erano rimaste ai margini del gioco istituzionale. Questa fase coincide anche con la costituzione delle cosiddette “giunte rosse” nei grandi comuni.
Dopo vent’anni si arriva a Tangentopoli, ed alla crisi politica della Prima Repubblica. Si affacciano nuovi soggetti politici destinati a segnare il percorso successivo dell’assetto politico, a cominciare dalla Lega Nord. Il richiamo precedente verso l’attuazione del dettato costituzionale diventa stavolta spinta verso un radicale cambiamento del disegno istituzionale tracciato dalla Costituzione. Sono gli anni dei richiami politici verso la secessione, il lievito ideologico che consente al partito di Umberto Bossi di crescere elettoralmente facendo leva sulle risorse sottratte al Nord dal governo romano e dalle regioni meridionali.
La sinistra di governo reagisce a questo progetto assecondandone la direzione mediante la sua istituzionalizzazione, con una estensione rilevante dei poteri assegnati alle Regioni. Nasce così la riforma del Titolo V della Costituzione ed il ribaltamento nella struttura dei poteri. Allo Stato centrale restano alcune competenze esclusive, mentre tutto il resto viene assegnato alla titolarità delle Regioni. Nella seconda metà degli anni Novanta del secolo passato viene portato a compimento questo processo. Ma non basta.
Nelle Regioni del Nord si radica il convincimento che il nodo centrale non sta solo nella titolarità dei processi decisionali, ma nel governo diretto delle risorse finanziarie, mantenendole per quanto è possibile all’interno dei territori che le generano. Comincia la fase di una nuova accelerazione, denominata autonomia differenziata. I passaggi di questo processo vengono costruiti a tappe successive, culminate nel 2017 con i referendum consultivi sull’autonomia celebrati in Veneto e Lombardia. Sono passati ormai cinque anni da quella consultazione, ed i primi passi della nuova legislatura repubblicana sono stati caratterizzati dalla presentazione di un nuovo disegno di legge di riforma costituzionale che mette al centro l’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario.
Non è stato mai compiuto un bilancio sull’operato delle regioni italiane, dal 1970 in avanti. Sarebbe stato un esercizio necessario, per comprendere la direzione di marcia più adeguata per ripensare il meccanismo di funzionamento delle istituzioni italiane. Si è determinato un progressivo indebolimento della macchina amministrativa dello Stato centrale, cui non ha corrisposto una crescita adeguata dei soggetti di governo locale. La qualità della classe dirigente burocratica è andata via via deteriorandosi, al centro come nelle periferie, mentre è cresciuta a dismisura l’articolazione delle strutture elettive su scala locale, non solo con gli organismi regionali ma anche con i municipi nei Comuni e poi anche con le città metropolitane.
Mentre andavano indebolendosi le grandi aziende pubbliche nazionali, che esprimevano un disegno generale di sviluppo, andavano crescendo le piccole aziende pubbliche locali, condizionate pesantemente dalla politica territoriale. Moriva intanto la pianificazione economica, che ha accompagnato lo sviluppo ed il miracolo economico italiano. Proliferava intanto la legislazione concorrente a tutti i livelli, determinando le condizioni per una ossificazione burocratica dei processi amministrativi.
La narrazione di Roma ladrona ha consentito l’ulteriore proliferazione di un numero infinito di centri di spesa e di centri di burocrazia. Per insediare un’impresa in Campania servono 34 autorizzazioni, una via crucis senza fine che scoraggia qualunque persona di buon senso da decisioni di investimento che sono già di per sé rischiose in territori che presentano una serie di incertezze territoriali.
Ci troviamo oggi davanti ad un bivio: vogliamo ancora spingerci verso l’approfondimento delle autonomie locali oppure vale la pena di fermarci un attimo a riflettere, misurando gli effetti delle politiche che sono state messe in campo sinora? Provocatoriamente, delineiamo uno scenario di riforma costituzionale nel quale siano le regioni ad essere abolite, perché hanno fornito una pessima prova amministrativa. Qualche domanda ci aiuterebbe a decidere.
E’ migliorata la sanità regionale rispetto al servizio sanitario nazionale? Il servizio di trasporto pubblico locale ha registrato una svolta positiva da quando sono le Regioni ad averne una piena responsabilità? Abbiamo visto una politica locale del lavoro che ha dato impulso alla modernizzazione del mercato del lavoro nazionale? La regionalizzazione della formazione professionale ha generato un modello efficiente che eroga prestazioni all’altezza della modernità?
Luigi Einaudi, nelle sue tante prediche inutili, ricordava sempre che era necessario conoscere per deliberare. Abbiamo misurato mai l’azione delle Regioni per fare un bilancio serio sul loro operato ad oltre mezzo secolo dalla loro istituzione? Sappiamo che esiste un divario territoriale di efficienza, che replica ancora una volta una delle questioni fondamentali irrisolte del nostro Paese.
Mentre continuiamo a non misurare nulla, l’inclinazione della discussione politica continua ad indirizzarsi verso un processo di ulteriore autonomia regionale. L’asticella delle ambizioni di svuotamento dello Stato tende ad approfondirsi ulteriormente, coinvolgendo anche l’istruzione e le infrastrutture, sino ad oggi rimaste estranee ai disegni di autonomia differenziata. Nel corso di tutti questi decenni, intanto, il divario regionale tra Mezzogiorno e resto del Paese è tornato ad allargarsi, in modo molto preoccupante.
Il Sud è diventata questione residuale per l’insieme delle politiche economiche del Paese, in una nazione che ha visto fortemente decelerare il tasso di sviluppo economico complessivo ed ha praticamente registrato una stasi della produttività totale dei fattori. Lo stesso Nord, rispetto al resto dell’Europa, ha conosciuto un arretramento di dimensioni particolarmente significative.
Secondo le teorie che si sono affermate nel corso dei decenni passati, avvicinando le istituzioni ai cittadini avremmo dovuto registrare un miglioramento nelle performance decisionali delle istituzioni. È invece accaduto esattamente il contrario. L’Italia ha segnato tasso di sviluppo economico da primato quando era un Paese centralista, nel corso degli anni Sessanta, mentre il motore della crescita si è imballato completamente quando si è arricchita la platea delle istituzioni, ed il modello organizzativo ha avvicinato al territorio le scelte pubbliche che sono state compiute.
Il Mezzogiorno, pur costituendo lo snodo fondamentale di questo meccanismo, è rimasto ai margini di tutta questa trasformazione e ne ha vissuto anzi gli aspetti negativi. Il percorso dal regionalismo iniziale al federalismo, per giungere alle ipotesi di autonomia differenziata, ha contribuito al peggioramento delle condizioni materiali, particolarmente negli anni più recenti. L’autonomia differenziata allarga il solco delle autonomie e delle sperequazioni tra i territori. Già oggi la spesa pubblica regionale per i servizi fondamentali viene ripartita sulla base di criteri storici, che non corrispondono a meccanismi di equità tra i cittadini. A differenza di quanto previsto dalla legislazione, non sono mai stati stabiliti i livelli equivalenti di prestazione e di assistenza (LEP e LEA). Se si dovesse procedere lungo il sentiero della nuova stagione di autonomia differenziata in assenza di una chiara identificazione di livelli omogenei di trattamento tra i cittadini dei diversi territori, si aprirebbe un solco incolmabile tra le regioni del nostro Paese, fotografando una realtà attuale già oggi portatrice di insopportabili diseguaglianze nella erogazione dei servizi fondamentali tra i territori.
Prima di andare ad un passo dalla dissoluzione dell’unità nazionale, forse sarebbe un servizio utile per i cittadini e per i decisori misurare l’effetto delle politiche condotte dalle Regioni italiane, a distanza di più di mezzo secolo dalla loro istituzione. E forse potrebbe essere interessante mettere a confronto il percorso verso l’autonomia differenziata con l’abolizione delle Regioni. Conoscere per deliberare, lo diceva il liberale Luigi Einaudi.