“Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”, così Massimo D’Azeglio dopo la proclamazione del Regno d’Italia, 1861. C’è voluto un secolo e mezzo, ma a fine ‘900 grosso modo l’Italia e gli Italiani erano cosa fatta. Avevano concorso a questo traguardo l’istruzione elementare obbligatoria, con le celebri maestre ‘toscanine’ inviate ad insegnare nel Mezzogiorno e nelle altre regioni dello stivale; la leva obbligatoria con i giovani del Sud coscritti nelle caserme del Nord e viceversa; le due guerre mondiali, la prima in particolare, con la prolungata convivenza nelle trincee di giovani che inizialmente neanche si capivano, parlando ciascuno i loro dialetti; la radio e la televisione, qualcuno della mia generazione ricorderà la celebre trasmissione ‘Non è mai troppo tardi’, condotta dal mitico maestro Alberto Manzi; gli esami di maturità gestiti da commissari provenienti dalle diverse regioni, che verificavano l’omogeneità della formazione erogata nei diversi territori, oltre alla preparazione dei singoli candidati.
Poi, poco alla volta l’Italia ha allentato la presa: fine della leva universale; esami di maturità gestiti da commissari interni o comunque del territorio; la stessa istituzione delle Regioni nel ‘70, che ha fatto la sua parte; l’exploit dei media locali e iperlocali, su carta, radiofonici, televisivi e oggi online.
Il resto ce lo ha messo la globalizzazione con la conseguente reazione di rigetto dei sovranismi, regionalismi e localismi identitari. C’è stato un momento, nella seconda metà del decennio scorso, in cui nella massima affermazione della globalizzazione, le maggiori potenze mondiali furono guidate contestualmente tutte da leader sovranisti: Trump, Putin, Xi, Modi, Bolsonaro, Erdogan, Boris Johnson. E poi i rigurgiti nazionalisti in Europa, dalla Francia all’Austria, dalla Catalogna alla ‘Padania’, la Brexit etc.
È in questo contesto che ha preso corpo in Italia – prima nel 2001, con la Riforma del Titolo V della Costituzione, oggi con la Legge Calderoli – il disegno di ‘disfare’ l’Italia. Ne è venuto fuori la Legge 86/’24, un mostro giuridico, istituzionale e sociale. Tanto sgangherato sotto il profilo giuridico, quanto lesivo dell’unità nazionale e dei diritti degli Italiani del Sud.
Prendiamo in esame le nove ‘competenze’ che, in quanto ‘non leppizzabili’ , cioè non subordinate all’approvazione dei Lep, possono già da oggi essere trasferite alle Regioni: rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; professioni; protezione civile; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; organizzazione della giustizia di pace.
In grassetto le tre su cui diremo qui di seguito, emblematiche del senso generale della legge.
“Rapporti internazionali e con l’Unione europea”. Ve lo figurate il Salvini di turno che, mentre il governo nazionale adotta una linea a Bruxelles, mette insieme i governatori di Lombardia, Veneto e Friuli Venezia-Giulia e stringe accordi vincolanti con i Paesi del Gruppo di Visegrad in contrasto con gli indirizzi dell’Italia nella UE? E magari i governatori di alcune Regioni meridionali che adottano una politica di convergenza con il Nord Africa in autonomia rispetto alle politiche nazionali? A parte la confusione generale, tanto più pericolosa in presenza delle sempre più inquietanti minacce di guerra, che lambiscono i nostri confini, non è questo un fomento alla dis-unità d’Italia?
“Protezione civile”. In caso di calamità ogni regione deciderà per se stessa? E quand’anche alla protezione civile nazionale fosse attribuita la potestà di intervento e di coordinamento generale, di quanti fondi essa disporrà una volta trasferite alle Regioni le sue funzioni con le relative coperture finanziarie?
“Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Qui l’autonomia differenziata non è solo generatrice di caos, è ai confini con l’eversione.
Il ‘residuo fiscale’ regionale è quanto avanza ad una Regione sottraendo dalle sue entrate fiscali la spesa necessaria all’erogazione dei servizi.
Il principio costituzionale italiano è l’equità fiscale e dei diritti dei cittadini: trattare in modo uguale gli uguali. Se il sig. Mario Rossi dispone di un reddito di 40mila euro annui, deve pagare le stesse tasse sia che risieda a Casoria, sia che stia a Monza. E ricevere gli stessi servizi (LEP).
Ma le Regioni non hanno tutte la stessa ricchezza. Succede che alcune, coperte le spese per i servizi ai cittadini, si ritrovino un residuo fiscale, mentre altre non raggiungono con le proprie entrate l’equivalenza del costo dei servizi.
Finora i residui fiscali delle Regioni con maggiori introiti sono stati devoluti allo Stato centrale, che li ha girati alle Regioni con minore gettito. Minore gettito che può essere dovuto sia alla minore ricchezza del territorio, sia alla minore consistenza demografica. Se in Val d’Aosta pagano le tasse 125mila cittadini e in Piemonte 4 milioni e 240mila, è del tutto ovvio che, pur a parità di ricchezza pro capite, in valori assoluti le entrate della Val d’Aosta saranno minori di quelle del Piemonte.
La tabella qui di seguito – i dati sono del 2016, ma le proporzioni non sono cambiate – evidenzia quanto trasferiscono allo Stato le Regioni con maggiore gettito e quanto ricevono dallo Stato quelle con minore gettito:
Qui invece il calcolo pro capite:
Ora, in virtù dell’autonomia differenziata, la Lombardia, trattenendo per sé i propri residui fiscali, potrà o migliorare i servizi ai propri cittadini o ridurne il carico fiscale a parità dei servizi erogati.
Viceversa la Calabria, se vorrà mantenere la quantità e qualità dei servizi ai propri cittadini, dovrà aumentare le tasse; se non le aumenterà, giocoforza dovrà ridurre i servizi.
Il Mario Rossi di cui sopra, a parità di reddito, se risiederà a Monza pagherà meno tasse o avrà più servizi; se risiederà a Casoria pagherà più tasse o avrà minori servizi.
Il principio dell’equità fiscale andrà a farsi benedire. E con esso quello dell’eguaglianza dei diritti.