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Della singolare attualità della Regola di San Benedetto/1

by Luigi Gravagnuolo
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San Benedetto

Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio.
Albert Camus, La peste

Al riparo della peste

Ancora oggi, ogni domenica sera, a compieta, i monaci benedettini, ‘al riparo dell’Altissimo e all’ombra dell’Onnipotente’, ringraziano il Signore nella certezza che li ‘libererà dalla peste che distrugge’.

È un versetto del Salmo 90, certo non scritto dal fondatore dell’ordine (1), ma da questi ritenuto fondamentale, tanto da inserirne la recita quotidiana nella preghiera comunitaria come obbligatoria: <<A compieta si ripetano ogni giorno i medesimi salmi, cioè il 4, il 90 e il 133>>(2).

Quel versetto ammonisce i monaci a non dimenticare quanto fortunati siano stati ad essere accolti nel monastero, dove sono protetti dall’Onnipotente, loro ‘scudo e corazza’ contro ‘lo sterminio che devasta a mezzogiorno’(3).

Oggi non sono solo i monaci di San Benedetto a recitare la liturgia delle ore, di cui la compieta segna la chiusura giornaliera. Con alcune variazioni ed adattamenti, essa è patrimonio comune dei cristiani di ogni confessione. Ma la sua codificazione iniziale avvenne proprio col monachesimo alto medievale, in particolare con la RSB(4).

Tant’è: i nostri religiosi da millecinquecento anni, nei loro conventi, ringraziano Iddio che li salva dalla ‘peste’.

La peste, appunto. Noi, cristiani del XX e XXI secolo, siamo adusi leggere la patristica e i testi biblici in chiave allegorica, pur giusta e pertinente. In realtà la teologia ci invita a leggerli a trecentosessanta gradi, sotto i canonici quattro sensi, il letterale, l’allegorico , il morale e l’anagogico; ma noi fedeli comuni spesso e volentieri ci fermiamo all’interpretazione allegorica ed a quella morale. Troviamo ostico avventurarci nel significato anagogico delle scritture e sorvoliamo sul loro senso letterale. D’altra parte l’interpretazione letterale rinvia ineludibilmente al contesto storico, culturale e geografico in cui quei testi furono scritti, molto distante dai nostri giorni. Per noi dunque la ‘peste’ da cui l’Onnipotente protegge chi vive al riparo delle sue mura è il peccato, o se si vuole il diavolo che ci tenta e ci induce a peccare, non la terribile e più che tangibile epidemia che per millenni ha accompagnato la storia degli uomini.

In questa chiave interpretativa abbiamo letto tuttora leggiamo l’intera RSB. Eppure, se provassimo a leggerla in senso letterale, alla luce della pandemia dei giorni nostri, la troveremmo di sorprendente attualità.

Secondo la filologia più accreditata San Benedetto scrisse la Regola intorno al 535 d.C. Notoriamente la sua stesura riprese quasi in toto la cosiddetta Regola Magistri (RM), di autore ignoto, e quella di san Pacomio, ma non solo; erano tante le regole in circolazione in quei tempi ed anche prima di essi(5). Nel mondo classico, ad esempio, da Parmenide a Platone, ad Aristotele, a Plotino, per non citare che i più celebri, intorno a grandi maestri erano stati fondati autentici cenobi, strutturati e organizzati sotto statuti propri. È ben noto che tali accademie avevano la connotazione di scuole e nello stesso tempo di associazioni para-religiose, godevano di personalità giuridica, di terreni, di edifici e di altri beni di proprietà. In genere erano dirette da un maestro, spesso eletto dai membri della scuola.  Così anche in Oriente(6).

Insomma, il cenobitismo in quanto tale non fu certo un’invenzione di S. Benedetto. Peculiare del santo di Norcia fu piuttosto la sua insistenza sul principio della stabilitas.  Già nel prologo della Regola il Patriarca affermava: << Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo per mezzo della pazienza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno>>(7).

E subito dopo, al capo primo, lui, pur così comprensivo ed indulgente, direi pragmatico verso le debolezze umane, esprime un’inusitata intransigenza nei confronti dei ‘monaci girovaghi’, una vera iattura a suo avviso: << C’è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all’altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri, sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto. Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare>>(8)

Può trovare spiegazione tanta durezza verso i monaci girovaghi, eredi di una plurisecolare tradizione(9)  solo con motivazioni morali ovvero teologiche?  O forse essa si giustifica anche alla luce del contesto storico in cui la RSB fu redatta?

Note

(1) Antico Testamento, Salmo 90, viene attribuito addirittura a Mosè.

(2) Regola di San Benedetto, cap. 18, 19. Oggi, come si è accennato sopra, il Salmo 90 non viene recitato quotidianamente, ma solo nelle compiete successive ai secondi vespri, cioè nelle domeniche e nei festivi.

(3) A.T., S. 90.

(4) In verità l’Opus Dei codificata da San Benedetto, come tutta la sua Regola, seguiva il solco delle tradizioni monastiche orientali ed occidentali a lui precedenti; nel caso del salterio con particolare riguardo all’Ufficio Romano, ma fu il Santo di Norcia a darle la sistemazione organica tuttora vigente.

(5) Secondo Cathopedia il grande riformatore ed uniformatore benedettino Benedetto di Aniane (750-821 d.C.)  nel suo Codex regularum ne enumera ed analizza ventisette e nella successiva Concordia regularum dimostra come tutta la tradizione monastica avesse trovato sistemazione nell’opera di Benedetto.

(6) Dopo aver ricordato che, fin dal VII sec. a.C., la quasi totalità delle confessioni religiose dell’Oriente, dal’induismo al taoismo, al bon al buddhismo ed al jainismo,  furono religioni essenzialmente monastiche, nate intorno a maestri itineranti e poi convertitesi alla sedentarietà, Francesco Sferra ne il Monachesimo delle religioni orientali scrive: <<Era costume in tutta l’India che i religiosi, monaci ed eremiti, fossero itineranti e che solo nel periodo delle piogge (giugno-settembre) conducessero una vita sedentaria e spesso comunitaria. I monaci jaina, ad esempio, originariamente potevano soggiornare in un medesimo luogo da uno a cinque giorni e, solo in casi eccezionali, potevano restarvi un mese o due. Con l’andar del tempo, quasi in tutte le scuole si ebbe il passaggio graduale dalla vita errabonda a quella sedentaria e comunitaria secondo un processo simile a quello che avvenne nel monachesimo egiziano ad opera di Pacomio>>.

(7) RSB, Prologo; sottolineatura mia.

(8) Ivi I, 10-12.

(9) In fin dei conti anche il Cristo ed i suoi apostoli furono itineranti.