Il piccolo centro abitato di Atrani è a due passi da Amalfi, di cui sembra una vedetta piazzata per l’avvistamento su uno sperone roccioso, sul mare ormai tutto amalfitano per chi proviene da Punta Campanella. Atrani sembra inchiodata a viva forza sulla roccia perché gli atranesi si insediarono lungo il breve e precipite corso del torrente Dragone che viene giù dal versante a mare dei Monti Lattari. E’ detto Dragone perché la leggenda vuole che vi si nascondesse un drago feroce che dalle fauci sputava fuoco e fiamme. Quel vomito infernale si trasformò in una ondata vorticosa di fango in occasione dell’alluvione violentissima del mese di Settembre del non lontano anno 2010. Fu quando il Dragone ruppe gli argini esondando e fluendo sulla stradina principale del borgo di Atrani. Lungo quel breve percorso l’ondata fangosa travolse tutto, precipitandosi nel mare blu del porticciolo che si tinse di fango. La vittima di quella furia fu una giovane donna, il cui cadavere fu ritrovato alle isole Eolie circa un mese dopo l’alluvione. Ma i soccorsi immediati e i lavori di ripristino furono per una volta efficaci e ci hanno ridato Atrani più bella e sicura.
Noi abbiamo ricordato la leggenda del Dragone perché le leggende hanno alla fine sempre fondi di verità, i quali ovviamente vanno indagati e interpretati. Ma segnaliamo che – poco lontano in linea d’aria – un altro fiume ha avuto per secoli, a partire dall’alto medioevo, il nome di Dragone. E’ stato il fiume Sarno che, pur scorrendo nell’entroterra, al di là della catena dei Monti Lattari, ha rappresentato per secoli la frontiera d’acqua e di storia dell’accorto espansionismo amalfitano sulla terraferma. Uno sputo di terra che però difendeva le spalle alla Regina del Mare Amalfi, anche prima che diventasse una Repubblica Marinara temuta e rispettata. Una terra grassa e ferace che serviva anche come necessario serbatoio alimentare per le parche mense degli insediamenti abitati costieri. Tali insediamenti erano stati generati dal ritorno verso valle e sulla costa degli abitanti dei luoghi i quali si erano rifugiati su per i monti lattari durante le ricorrenti invasioni dei Barbari che segnarono lo sfacelo dell’Impero Romano.
Quegli insediamenti dunque li potremmo definire anche re-insediamenti perché nascevano al posto di antiche Villae Marittimae romane. Intorno e sopra i loro resti. E’ utile infatti sapere che le Ville romane erano state abbandonate perché in parte sepolte e seriamente danneggiate dalla ricaduta del materiale piroclastico eruttato dal Vesuvio e dai movimenti tellurici che accompagnarono la eruzione Pliniana del 79 d.C., fatale per Pompei, Ercolano e Stabia. Quelle Ville erano definite anche Ville di ozio, a sottolinearne la funzione di struttura residenziale destinata dal proprietario al tempo libero e “ozioso” della bella stagione. Esse erano sorte a partire dal primo secolo dopo Cristo lungo la nostra costiera e svolgevano però anche la funzione di strutture di produzione agricola. Erano infatti dotate di vasti compendi, estesi per decine di ettari e punteggiati di antichi “cellaria” per la produzione del vino, per l’olio o anche per la frutta secca.
E qui precisiamo che il termine “cellaria” – qualora esso abbia sorpreso il lettore – ancora oggi in lingua italiana trova il proprio omologo nell’assonante sostantivo “cellaio”. E’ un termine un po’ obsoleto che sta a indicare un locale agricolo isolato, nel sito padronale. In lingua napoletana, ferma l’omologia, addirittura l’assonanza è praticamente perfetta: “cellaro”. E’ ora però di chiudere la digressione linguistica. Torniamo dunque decisamente su Atrani.
Le prime case del primitivo borgo di Atrani furono forse realizzate direttamente sulla spiaggia per poi raggrumarsi intorno allo slargo della Chiesa del San Salvatore. Successivamente il nascente nucleo urbano – già riconosciuto come tale in documenti nel VI secolo dopo Cristo – si sviluppò verso monte e lungo la Valle del Dragone, arrampicandosi sulle pendici rocciose. Queste poi vennero popolate man mano da giardini e limoneti che si integrarono con la vegetazione mediterranea già presente su quelle pendici cotte dal sole. E così oggi la conformazione urbana di Atrani vale da sola una escursione. Sicuramente rigenerante per lo spirito. Essa è fatta da vicoletti, piccoli e freschi cortili perimetrati da archi, da slarghi e piazzette collegati da scalette in pietra mozzafiato – le famose “scalinatelle” – le quali intrecciandosi scandiscono la impegnativa risalita che esclude il traffico automobilistico, tenendolo fuori dell’abitato. Atrani è oggi forse il più fascinoso nucleo abitato della intera divina costiera, conservatosi bene nonostante gli assalti della modernità. Per questa sua autenticità ancora palpabile Atrani è stata inserita nell’olimpo dei borghi più belli d’Italia, amati e rispettati dal turismo. Insomma, un esempio positivo di sviluppo turistico equilibrato. Atrani potrebbe passare per un borgo montano aggrappato alla roccia se il cielo e il mare non facessero a gara per contendersi gli squarci più azzurri e i fondali più luminosi nella solarità mediterranea. Tutto il borgo atranese però poi si precipita sulla piazzetta da cui si accede direttamente alla spiaggia. Al mare si arriva attraversando l’antico passaggio creato per proteggere dalle mareggiate le barche. Attraverso quell’accesso, forse aiutati dalla mano di un traditore, i marinai Pisani – rivali e ostili ad Amalfi per il predominio sul mare Tirreno – penetrarono devastando il borgo della fedelissima Atrani. Insomma fu la piccola vedetta amalfitana ad avere la peggio, ma i suoi abitanti come premio conservarono sempre la identità di Atranesi, a differenza di tutti gli altri abitanti del Ducato di Amalfi che erano “soltanto” cittadini Amalfitani, che non potevano eleggere o deporre il “Duce” del Ducato. Era un diritto privilegiato riservato ai cittadini di Amalfi e della minuscola Atrani.
A quest’epoca gloriosa per Atrani risale la Torre dello Ziro. Essa fa la guardia al mare dal Monte Aureo situato alle spalle dello sperone di Atrani. La torre è famosa per la sorte infelice di Giovanna d’Aragona, vedova di Alfonso Piccolomini, il famoso dei Duca d’Amalfi. Questa Giovanna, poi detta Giovanna la Pazza, si coinvolse in una travolgente storia d’amore con il proprio Maggiordomo. Imprigionata nella Torre, fu lasciata là a morire di stenti insieme ai suoi piccoli bastardi, ispirando così il genio letterario di postumi narratori. Ci volle Masaniello nel Seicento a dare nuovo lustro, purtroppo effimero, alla piccola vedetta amalfitana. Tommaso Aniello d’Amalfi, pescatore e contrabbandiere fu il folle monarca di Napoli per una decina di tumultuosi giorni di rivolta contro gli spagnoli. Ma Masaniello era di madre atranese. E Atrani conserva la grotta dove la leggenda narra che egli trovasse riparo quando era inseguito dai gendarmi. Essa è per tutti: ‘A rotta ‘e Masaniello…