Un’applicazione per mappare il contagio da COVID-19. Lo scopo: contenere la diffusione del virus. Perché sia efficiente occorre che almeno l’80% della popolazione italiana la installi sul proprio smartphone. App Immuni è ancora oggetto di ampia discussione, perché ci sono forti dubbi legati al rischio per la privacy degli utenti. Un rischio che accomuna tutte le applicazioni.
Internet, applicazioni e social sono il pane quotidiano dell’era digitale. Per nostra scelta concediamo che i gestori dei servizi on line conoscano tutto di noi: gusti, passioni, idee, inclinazioni, viaggi e ogni sorta di spostamento. L’App Immuni è una tecnologia che sfrutterebbe la connessione bluetooth per trasferire informazioni e dati, che dovranno essere caricati su dispositivi con sistemi Android e iOS.
Il D.L. del 30 aprile non chiarisce quale sia il sistema che verrà utilizzato per immagazzinare questi dati, né chi ne sarà in effettivo possesso. Già non viene garantito l’anonimato. Si parla infatti di pseudonimizzazione, significa che si può risalire comunque alle identità degli utenti. Non è chiaro se si adotterà un sistema decentralizzato, open source, che consentirebbe una gestione trasparente delle informazioni, o un sistema centralizzato a disposizione solo di pochi ricercatori. La disponibilità di un dato in rete rende quella persona tracciabile, vulnerabile a studi di mercato per fini commerciali o studi statistici per fini elettorali (ad esempio). Si dovrebbe chiarire da chi e come saranno gestiti questi dati, se un soggetto pubblico (aperto) o privato.
Plausibile è il rischio di un massiccio tracciamento dei contatti sociali di ciascuno. Il fatto che non si adotti la geolocalizzazione non significa che in rete non rimangano tracce del trasferimento dei dati. Anzi, tutto quello che viene caricato in Internet, ogni attività o ricerca, non scompare ma resta nei server.
La certezza che non vi siano società private dietro l’uso dell’applicazione non c’è. Come non c’è la certezza che sia effettivamente decisiva per limitare la diffusione del virus. Né la sicurezza che, pur adottando un sistema trasparente, tutte le informazioni che dovrebbero rimanere nello spazio di archiviazione degli smartphone, non possano essere comunque utilizzate dalle società dei relativi sistemi operativi. A ben pensarci, ogni volta che ci occorre scaricare un file tramite Google, Google ci chiede di accedere allo spazio di archiviazione del dispositivo. Ma quel file ci serve, quindi permettiamo l’accesso.
In un coacervo di domande in sospeso, quanto l’invasione della privacy vale l’uso di una tecnologia che potrebbe non essere così efficiente?