E’ l’anno verghiano. Sono cento anni dalla morte di Giovanni Verga che si spense nella sua Catania il 27 gennaio del 1922. Tutti lo abbiamo studiato a scuola. Come teorico e fondatore del Verismo. Come altro scrittore realista rispetto al Manzoni, da cui diverge profondamente per stile ed ideologia. Abbiamo avuto dimestichezza con i Malavoglia. Già Mastro don Gesualdo risultava alquanto ostico per studenti non abituati all’introspezione del discorso indiretto libero. Insomma ora l’Italia e gli italiani lo celebrano con una serie di iniziative. Il sito ufficiale delle celebrazioni Verga 1922/2022 sottolinea come alle spalle degli eventi in programma ci siano due anni di lavoro per riportare alla memoria lo spirito dell’intera produzione verista. L’iniziativa è articolata in attività teatrali, rassegne cinematografiche, eventi musicali, incontri culturali, mostre fotografiche, concorsi e itinerari dislocati in varie città italiane ed europee, e che vede il coinvolgimento di università, enti locali e comuni, parte di una grande rete culturale, dove la solennità secolare sarà occasione di dialogo intellettuale tra popoli.
Eppure tanta enfasi sembra mal attanagliarsi ad un autore che visse in uno sdegnoso isolamento gli ultimi decenni della sua vita, sentendosi incompreso e forse superato da altre forme di scrittura in primis quella dannunziana. Il Mastro don Gesualdo ed Il Piacere vennero pubblicati nello stesso anno 1889 con accoglienza di pubblico ben diversa. Conservatore di indole, colonialista, nazionalista, interventista, favorevole alla repressione delle proteste sindacali dei Fasci siciliani ad opera di Crispi, giustificò la sanguinosa repressione dei moti di Milano ad opera di Bava-Beccaris.
Non proprio un progressista, eppure ci sono degli aspetti della sua produzione di straordinaria modernità. La figura del giovane ‘Ntoni nei Malavoglia esprime il disagio giovanile di chi non si riconosce più nella tradizione rappresentata dal patriarca padron ‘Ntoni e se ne va, in cerca di un destino migliore come tanti migranti, illusi, dice Verga, dalla speranza che esista un mondo migliore della propria terra.
«E se ne andò con la sua sporta sotto il braccio… Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole…».
Nella sua produzione vi sono temi scottanti per l’epoca e non solo come lo sfruttamento del lavoro minorile per esempio in Rosso Malpelo.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo
Non mancano figure di donne di eccezionale autonomia per i tempi e per questo reiette e tenute lontane dalla comunità che le teme e le condanna come streghe. La Lupa, la gnà Pina non è mansueta ed obbediente, ama e vuole essere amata contro tutte le convenzioni anche a rischio della sua vita.
“Seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e, mangiandoselo con gli occhi neri”.
Insomma leggere Verga con gli occhi della modernità, come chi ha saputo portare nei suoi testi problematiche di lungo respiro è forse il modo migliore per onorarne la memoria e continuare a studiarlo.