Le parole ci salveranno. Quelle della scienza lo stanno già facendo. Le rassicurazioni e i richiami degli operatori sanitari ci indicano la strada per uscire il più presto possibile dall’oscuro tunnel del contagio. Ma noi oggi vogliamo parlare di altre parole salvifiche, quelle della letteratura, prosa o poesia, che ci salvano dall’abisso dell’isolamento e della noia. Non parliamo, ovviamente, di quelle che quotidianamente ci scambiamo, di conforto, di informazione, di consigli, ma quelle che ci aiutano nel profondo. La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmare la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare gioia, e ad aumentare la pietà. Così Gorgia nell’Encomio di Elena, nel V sec. a.C. Ed il maestro dei sofisti di parole se ne intendeva. Esistono dunque parole che funzionano da antidoto, da vaccino dell’anima. E sono queste che insieme con voi vogliamo trovare e diffondere come cura.
Creiamo insieme una stanza virtuale in cui noi lettori possiamo entrare e uscire, dove possiamo portare il nostro personale antidoto contro l’accidia di questi giorni.
Denominiamo la nostra stanza: Angolo lettura e usiamo questo spazio per pubblicare i testi letterari, brevi, che voi lettori/visitatori vorrete proporre. Potrete farlo usando la pagina Facebook del nostro giornale, oppure scrivendo una mail a [email protected] oppure utilizzando i nostri gruppi di lettura già presenti sul web.
Comincio io con il proporvi un racconto di Silvia Avallone che di sé dice: La vita che amo raccontare è quella che sfugge al controllo e alla programmazione: tutti gli eventi realmente importanti ci colgono alla sprovvista, scatenano insieme forza e debolezza, e in questo scontro noi diventiamo.
Fu così che divenni Anna Karenina
Il mio primo sentimento di bambina nei confronti dei libri fu un miscuglio di gelosia e spirito di competizione. A una certa ora del pomeriggio vedevo mia madre sprofondare nel divano con un libro aperto sulle ginocchia, e non c’era più verso di attirare la sua attenzione. Restavo esclusa da quella specie d’incantesimo che invano tentavo con ogni capriccio di rompere. Non capivo come potesse diventare così assente, infastidita dal citofono e dalle telefonate. Mi convinsi che nei libri ci fosse qualcosa di diabolico. E il diabolico attrae.
La rivoluzione accadde un pomeriggio, imparando a memoria una poesia di Pascoli, “Novembre”. La ripetevo affacciata a una finestra che dava su un orto dietro la casa. Era una giornata invernale e luminosa, come quella descritta dal poeta un secolo prima. Di colpo mi accorsi che gli orti della poesia stavano ingaggiando una lotta con quello reale. L’aria che «gemmea» tra le parole aggiungeva qualcosa a quella del mio pomeriggio. E «l’estate fredda dei morti» scoccava come una rivelazione non sulla pagina, ma sul vetro della mia finestra.
Con i primi romanzi scoprii che tutte le cose vietate potevo farle dentro i libri, potevo diventare un eroe o un farabutto, Raskolnikov o Anna Karenina; in ogni caso, mi facevo più grande, immedesimandomi acquistavo poteri sconosciuti. La vita nell’altrove delle pagine era straordinariamente più interessante, piena ed esatta della mia. E il bello era che il libro, una volta chiuso, non finiva. Continuava a tessere la sua trama nella memoria, modificava la mia vista, il mio udito, il mio tatto. Cominciai a interessarmi alle pagine di politica dei quotidiani dopo aver letto “Furore” di Steinbeck: l’ingiustizia che avevano patito i mezzadri dell’Oklahoma espropriati delle loro terre era diventata la stessa ingiustizia che dovevo sconfiggere anch’io. Fu Pasolini a farmi stringere amicizia con i ragazzi che fumavano in sella a motorini senza casco e non volevano proprio saperne della scuola. Il mondo si svelava attraverso i libri che illuminavano i bar, le piazze, le persone. Mi guidavano a esplorare i luoghi meno raccomandabili, a combattere l’ipocrisia e l’indifferenza. Le borgate di oggi, immerse nella luce radiosa che Pasolini ne aveva estratto ieri. Da Nord a Sud ho ritrovato i bagliori vivi di “Le ceneri di Gramsci”.
Ogni balordo, ogni donna perduta, ogni sconfitto che conoscevo tra le pagine di un libro, diventava un caro amico per il quale costruire una società migliore. Dietro ogni volto, fosse anche il più sfigurato, immaginavo in ogni dettaglio la storia che lo aveva condotto a quel punto: fino alla macchinetta del videopoker avviata all’infinito, fino allo sguardo disilluso da una panchina di fronte alla stazione. Perché «la vita non serve a vincere», come dice in modo disarmante un personaggio secondario di “Le correzioni” di Franzen. I libri non mi hanno mai rivelato a cosa serva davvero, ma mi hanno insegnato che anche quella degli altri mi riguarda.
I romanzi che più ho amato, come “A sangue freddo” di Truman Capote e “La Storia” di Elsa Morante, hanno scatenato un autentico putiferio. Nel 1966 un’intera nazione aspettava con ansia le puntate sul «New Yorker» per continuare a leggere la storia che Capote aveva estratto dalle cronache quotidiane di provincia. La storia vera di un assassinio atroce. Ma la verità nel romanzo di Capote non coincide con la cronaca dei fatti, non è un concetto o un’informazione. Si chiude il libro e si resta con il mistero intatto: non si possiede niente. Lo sguardo però ha cambiato direzione. Truman Capote è andato ad assistere all’impiccagione di due feroci «nessuno», e Perry E. Smith e Richard E. Hickock sono stati salvati. Non dalla legge, ma dalla lettura. Il loro tempo non è più quello di una vita soltanto, ma d’intere generazioni. Ho amato i libri che hanno indignato, scandalizzato, e che oggi sono diventati classici. Li ho amati perché leggerli è stato, e continua a essere, un passo in più verso la democrazia.
Crooks, il garzone di colore di “Uomini e topi”, a un certo punto dice a un altro emarginato: «I libri non servono a niente. A un uomo occorre qualcuno… che gli sta accanto». Come dargli torto? I libri non hanno mai fornito armi o soluzioni, la loro compagnia è simile a quella dei fantasmi. Ti spiattellano davanti gli stessi problemi che ti pone la vita. Magari centuplicati, e con maggiore ferocia. Eppure qualcosa di nuovo accade.
Nella lettura non s’incontrano soltanto personaggi, epoche, paesaggi. Nascosto in un punto buio e minuscolo del testo, quasi in una buca a grandezza di formica, c’è un’altra persona. Qualcuno per cui talvolta proviamo, anche senza conoscerlo, un’infinita vicinanza. Penso a un poeta russo pochissimo tradotto. Si chiama Boris Ryžyj, è nato in una regione degli Urali nel 1974, e nel 2001 si è impiccato nella sua casa.
In una poesia, scritta in una camera forse d’ospedale, la vita gli appare da una nebbia, e lui cerca di sollevarsi dal letto perché vuole guardarla negli occhi. «Guardarla, mettermi a piangere, / e non morire mai». Questo verso finale e sospeso, sussurrato ai suoi lettori prima di fare l’esatto contrario, ci fa sentire nudi. «Non morire mai»; è una frase quasi impronunciabile. Ma in qualche modo, in una pur minuscola misura, la nostra lettura ha esaudito il suo desiderio. Ciascun lettore, nel silenzio della sua stanza o nel fragore di un vagone del treno, ha desiderato la stessa cosa.
Dalla scelta che ho fatto potete capire la mia indole, i miei interessi, la mia personalità.
Attraverso i prossimi racconti impareremo a conoscere gli altri partecipanti. Ci vediamo all’Angolo lettura.