Ettore Mo, scomparso il 10 ottobre a 91 anni, è stato uno dei più grandi reporter dalle zone di guerra che il giornalismo italiano abbia mai avuto. Firma di punta del Corriere della Sera, fu cronista di razza di un altro giornalismo, prima degli smartphone e dei social network. Di quelli che potevano permettersi un lusso ormai impensabile nel giornalismo di oggi: andare nei luoghi senza preoccuparsi del tempo.
Perché gli serviva molto tempo per entrare nella cultura del posto, per acquietare la sua curiosità per l’essere umano, per ogni tipo di essere umano, ultimo e ribelle, matto e solitario, potente e dispotico, malavitoso e fuorilegge. I suoi colleghi raccontavano che a volte passavano intere settimane senza avere notizie del loro inviato, poi all’improvviso tornava e aveva una storia unica. Era convinto che le guerre, le catastrofi, come tutte le storie, sono un ammasso intricato di tante cose insieme: politica, geografia, religione, istinto, passione, usi e costumi, e per poterle raccontare bisogna andare in prima persona nei luoghi dove accadono per scriverne con stile chiaro e asciutto senza orpelli, rimanendo un passo indietro al fatto, la storia innanzi tutto. “Noi dobbiamo scegliere le parole con una purezza incredibile, – diceva – ritrovare la castità verbale“.
Tanti i suoi viaggi in Afghanistan, entrandovi da clandestino e travestito da mujaheddin, attraversando le sue montagne con ogni mezzo. Un paese che gli suscitò un amore particolare e di cui diventò uno dei massimi conoscitori. Ha incontrato ed intervistato più volte Ahmad Shah Massoud, il guerrigliero tagiko, ex capo della Resistenza antisovietica e poi nemico dei talebani, con cui era riuscito a stringere un’amicizia.
Ettore Mo si è occupato per oltre vent’anni di politica estera. Ha incontrato alcuni fra i grandi del Novecento, con interviste rimaste nella storia: da madre Teresa di Calcutta al direttore d’orchestra austriaco Herbert von Karajan, a Luciano Pavarotti. In lui c’era anche una vena poetica, e soprattutto un affetto per l’essere umano, sapeva saltare tutte le barriere sociali, culturali e antropologiche per andare a cogliere il punto. Ettore Mo è stato un esempio per generazioni di giornalisti, credendo nella professione come missione e nella “necessità inderogabile di testimoniare”.