Frammento della Mappa di Madaba
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L’articolo di Désirée A.L. Quagliarotti è apparso sul Numero 5, Gennaio – Aprile 2025, di LAB Politiche e Culture
La guerra dei dati
La disputa sulle risorse idriche tra Israele e Palestina non è solo un campo minato di sospetti e tensioni che riflette decenni di conflitto, occupazione e incertezze, ma anche una questione di numeri. In questo contesto, l’acqua diventa il simbolo di un mondo diviso, dove la verità appare frammentata e ognuno si aggrappa a dati e statistiche che spesso si scontrano. La mancanza di trasparenza e di dati condivisi sull’offerta e la domanda idrica è una delle barriere principali. Entrambe le parti detengono le proprie informazioni, ma la condivisione di documenti e relazioni è quasi impossibile. Israele ha accumulato fin dal 1948 rapporti dettagliati sulle risorse idriche regionali, ma l’accesso a tali dati è limitato, essendo considerato un elemento di sicurezza nazionale. Le informazioni riguardanti le falde acquifere condivise con la Cisgiordania, in particolare, sono costantemente coperte da segreti di stato e le richieste per accedere a questi dati devono passare attraverso le autorità militari e spesso vengono respinte. Di fronte a questa segretezza, gli studiosi palestinesi mettono in dubbio l’affidabilità delle statistiche ufficiali israeliane, preferendo fare riferimento a rilevamenti propri, spesso imprecisi e basati su tecnologie obsoleti, piuttosto che accettare dati provenienti dal governo israeliano, visto come un riconoscimento implicito dell’occupatore. Questa divergenza tra i numeri israeliani e palestinesi è particolarmente evidente quando si discute sulla capacità idrica delle falde sotterranee e dei consumi idrici dei coloni israeliani in Cisgiordania e, fino al 2005, nella Striscia di Gaza.
Le cifre contrastanti contribuiscono a una visione distorta della realtà. Secondo i palestinesi, la distribuzione delle risorse idriche è profondamente iniqua: Israele sfrutta circa l’80% delle risorse provenienti dagli acquiferi montani, mentre lascia ai palestinesi, che contribuiscono per il 96% alla loro ricarica, solo un misero 20%. Gran parte della popolazione palestinese non ha accesso diretto alla rete idrica, soffre frequenti interruzioni e si vede costretta a comprare acqua dalla compagnia israeliana Mekorot, a prezzi significativamente più elevati rispetto a quelli che pagano gli israeliani. Questo squilibrio è riflesso nelle disuguaglianze nei consumi: il consumo idrico giornaliero pro capite dei palestinesi in Cisgiordania è di circa 73 litri al giorno, ben al di sotto della soglia minima di 100 litri raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), mentre quello degli israeliani è quattro volte superiore.
Israele, tuttavia, difende fermamente la propria posizione, ricordando che al momento della conquista della Cisgiordania nel 1967, la rete idrica palestinese era quasi inesistente. Solo 4 dei 708 città e villaggi palestinesi erano collegati a moderni sistemi di approvvigionamento idrico. Eppure, nel corso dei decenni successivi, questo numero è aumentato considerevolmente: nel 1994 erano 309 le città e i villaggi collegati ai sistemi di distribuzione, e nel 2010 il numero è salito a 641. Lo Stato ebraico sostiene che, grazie all’espansione della rete idrica, il consumo d’acqua palestinese nella Cisgiordania è raddoppiato tra il 1967 e il 1994 e rivendica di aver rispettato pienamente gli impegni presi nell’Accordo Provvisorio del 1995 (Oslo II) con l’Autorità Palestinese, come pure le disposizioni per un eventuale accordo permanente. Secondo la narrativa israeliana, oggi, nonostante le ingiustizie storiche, il consumo pro capite di acqua tra israeliani e palestinesi è sostanzialmente equivalente, e il consumo domestico palestinese addirittura supera i minimi raccomandati dall’OMS. Israele mette in luce questi progressi come un segno della propria buona volontà e del suo impegno per migliorare la situazione idrica nei territori palestinesi. Al contrario, sottolinea che mentre gli israeliani hanno garantito l’accesso all’acqua corrente per la maggior parte dei villaggi palestinesi, i palestinesi non hanno rispettato alcuni degli impegni concordati, come la costruzione degli impianti di trattamento delle acque reflue, e hanno realizzato pozzi e connessioni non autorizzate alle reti israeliane. In questo contesto, Israele considera le richieste palestinesi per una maggiore fornitura di acqua come prive di fondamento legale, poiché l’accordo idrico del 1995 rimane il riferimento internazionale e normativo principale.
In definitiva, mentre Israele mette in evidenza i propri progressi nell’ampliamento della rete idrica, i palestinesi sottolineano le persistenti disuguaglianze nell’accesso e nella distribuzione delle risorse.
In questo contesto di incertezza, l’unica sicurezza è che il sistema di gestione delle acque così come configurato dalla politica di occupazione, ha generato a una vera e propria corsa allo sfruttamento, relegando in secondo piano le priorità relative al risparmio idrico e alla tutela ambientale. I palestinesi spesso ricorrono a soluzioni illegali, come lo scavo di pozzi non autorizzati o la realizzazione di allacciamenti abusivi alla rete idrica israeliana, pratiche che aggravano ulteriormente la crisi. Nel frattempo, i divieti israeliani che limitano le opere di manutenzione delle infrastrutture idriche in Cisgiordania hanno portato a ingenti perdite, che possono arrivare fino al 50% dell’acqua distribuita.
La drammatica diminuzione dei livelli delle falde, il prosciugamento di pozzi e sorgenti e l’abbassamento vertiginoso del Mar Morto sono una chiara testimonianza dell’impasse che attraversa il cuore della contesa.
La questione idrica si rivela, dunque, una chiave di lettura imprescindibile, dove l’acqua, risorsa apparentemente nascosta ma al contempo visibile nel suo peso, diventa una delle variabili esplicative, capace di svelare le verità taciute e le ingiustizie ignorate.
In un contesto in cui i numeri si fanno spesso scudo e le parole si intrecciano in dispute non risolte, è proprio nella gestione delle acque condivise che si cela una delle dimensioni più profonde e scomode per decifrare le dinamiche di questo conflitto.
Già nel 1992, l’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin avvertiva:
“Se risolviamo tutti i problemi del Medio Oriente, ma non quello della condivisione dell’acqua, la nostra regione esploderà. La pace non sarà possibile”.
Il peso strategico di queste parole si traduce inevitabilmente in una risposta implicita alla tanto auspicata soluzione ‘due popoli, due stati’. Un ritorno ai confini fissati sulla Linea Verde equivarrebbe per Israele a rinunciare alla sua posizione dominante nel bacino idrografico del Giordano. Tale scenario ridisegnerebbe la mappa idropolitica, riportando il paese alla situazione del periodo antecedente la guerra del 1967, con la conseguente perdita del controllo diretto delle sorgenti del Giordano e delle falde acquifere di montagna, risorse cruciali per l’approvvigionamento e la sicurezza idrica nazionale.
In un contesto in cui le trattative sembrano smarrirsi oltre le ‘Colonne d’Ercole’ della diplomazia, una soluzione condivisa tra le parti appare sempre più un miraggio lontano e inafferrabile, come mostrano le più recenti dinamiche del conflitto tra Hamas e Israele.
Quasi una conclusione
Chissà se, paradossalmente, ciò che la diplomazia non è riuscita a realizzare in oltre un secolo di sforzi, potrebbe essere illuminato da una luce diversa, quella dell’arte, capace di superare le divisioni attraverso il linguaggio universale della bellezza.
Nel 1884, durante i lavori di costruzione della chiesa ortodossa di San Giorgio, riemerse l’antica Mappa di Madaba, la più antica mappa illustrata della Terra Santa, sepolta per secoli in un angolo dimenticato di Giordania.
Questo pavimento mosaico, risalente al VI secolo, trovava dimora lungo la storica Via dei Re, poi Via Nova Traiana, che univa Aqaba, sul Mar Rosso, a Damasco, tessendo un fiorente scambio commerciale tra Oriente e Occidente.
Unica testimonianza geografica originale dell’antichità, la mappa si erge come un frammento raro e prezioso di un mondo antico ormai svanito, la cui memoria è stata tramandata principalmente attraverso copie medievali. Datata dopo il 542 d.C., essa offre una visione del Medio Oriente al culmine della sua complessità storica, descrivendo un paesaggio che spazia dalle maestose montagne del Libano, toccando le antiche città fenicie di Tiro e Sidone, fino a raggiungere l’imponente corso del Nilo. Il suo sguardo abbraccia un territorio che si estende dal blu profondo del Mediterraneo alle sabbie del deserto orientale, catturando, con sorprendente precisione, la vastità e le interconnessioni di un mondo in transizione, dove civiltà e culture si mescolano in un intricato arazzo di storia. Lo stile, che adotta una prospettiva ‘a volo d’uccello’, mostra le città e i villaggi visti dall’alto, un espediente che suggerisce che la mappa fosse pensata per aiutare i pellegrini a orientarsi verso le loro destinazioni devozionali. Nonostante alcune imprecisioni, il mosaico è ancora oggi considerato un capolavoro cartografico, un antico Baedeker che guidava i visitatori nei luoghi sacri. Ognuna delle 150 località rappresentate è minuziosamente descritta attraverso miniature perfette delle città più importanti, a cominciare da Gerusalemme, l’Ἁγία Πόλις, la Città Santa, posta nel cuore del mosaico. Ma è tra i fiumi in piena, i mari generosi e le maestose montagne che il mosaico prende vita, colorandosi di simboli che evocano l’antica ricchezza naturale di questi luoghi. Le palme si ergono rigogliose, emblemi delle oasi di Gerico, dove la vita fiorisce nel deserto e la fauna tropicale trova un rifugio sicuro; i cespugli prosperano, segni tangibili della fertilità che i fiumi custodiscono. E poi i pesci, silenziosi viaggiatori, risalgono il fiume sacro, seguendo la corrente che li guida verso le salatissime ma invisibili acque del Mar Morto, un luogo che, nel sogno di chi lo osserva, appare ancora come un mare solcato da traghetti pensili, leggeri e aggraziati, che, secoli dopo, avrebbero potuto ispirare il genio di Leonardo.
C’era una volta un fiume, direbbe il pellegrino del nuovo millennio con gli occhi colmi di stupore, mentre scruta le immagini satellitari che immortalano il flusso fragile e disarticolato del Giordano. Oggi, la sua forza sembra dissolversi come sabbia tra le dita, e le acque che un tempo scorrevano incessanti verso il Mar Morto si sono ormai frammentate, perdendosi tra argini fragili e diramandosi in canali artificiali, incapaci di restituire la vita che un tempo generosamente elargivano. E così, ogni piega del terreno, ogni increspatura dell’acqua ci raccontano una geografia diversa, segnata dalla mano dell’uomo e dal mutare del clima, come le linee di un volto che il tempo ha scolpito, ma che conserva in sé il ricordo di ciò che fu. Eppure, ancora oggi, guardando le immagini dalla stessa prospettiva delle stelle, si può intravedere il respiro del fiume che continua a scorrere, seppur indebolito. Un fiume che porta con sé l’eco di antiche promesse e di speranze che, a dispetto del tempo e delle trasformazioni, non cessano di cercare la loro via.
Ha-Jarden, come il Giordano è chiamato nei testi sacri, ormai ridotto a un’ombra di sé stesso, diventa non solo simbolo di perdita, ma anche un monito. Forse proprio quelle tessere che narrano di un fiume un tempo fonte vitale per le popolazioni che abitavano le sue sponde, dovrebbero risvegliare una nuova consapevolezza. La crisi idrica, che ha acuito le tensioni tra israeliani e palestinesi, si è trasformata in una tragedia ecologica che abbraccia l’intera regione, mentre il Giordano continua a scorrere come un silenzioso testimone di una guerra che ha ignorato non solo la pace tra i popoli, ma anche il fragile respiro di una terra e delle sue acque.
Tuttavia, quelle acque potrebbero ancora trasformarsi in un simbolo di speranza, in un invito a superare le divisioni e unire le forze per risanare ciò che resta di quel legame tra natura e storia.
In un mondo sempre più segnato dalla scarsità d’acqua e dai disastri del riscaldamento globale, la sopravvivenza di tutti, al di là dei confini politici, dipende dalla nostra capacità di affrontare insieme il nemico comune. Perché, come ci avverte ancora una volta Friedman, in modo provocatorio ma decisamente incisivo (New York Times, 2022):
“Il cambiamento climatico distruggerà gli arabi e gli israeliani ben prima che riescano a distruggersi gli uni con gli altri”.