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‘Acqua Santa’. Il conflitto israelo-palestinese in una prospettiva idrica

Prima parte

by Désirée Quagliarotti
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Mappa della spartizione del Mandato Britannico, allegata alla Risoluzione 181. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Piano_di_partizione_della_Palestina

 

L’articolo di Désirée A.L. Quagliarotti è apparso sul Numero 5, Gennaio – Aprile 2025, di LAB Politiche e Culture.

 

La genesi della questione israelo-palestinese: la storia di quello che racconta la storia

Il conflitto attuale tra Hamas e Israele ha riportato al centro del dibattito internazionale la questione israelo-palestinese, rinnovando l’attenzione sulle ferite aperte e sulle profonde sfide che rendono difficile trovare una soluzione che soddisfi i sogni e le necessità di entrambi i popoli.

Le radici storiche di questa crisi affondano in un intreccio complesso di eventi, speranze e rivendicazioni, legato a quella Terra Promessa che, un tempo, faceva parte del vasto mosaico dell’Impero Ottomano.

La Palestina ottomana era una società articolata e multiforme, caratterizzata da una notevole diversità etnica e religiosa. La popolazione era per lo più composta da comunità arabe musulmane, con minoranze cristiane ed ebraiche, che coesistevano all’interno di un equilibrio sociale fragile. L’economia si fondava prevalentemente sull’agricoltura tradizionale, orientata alla sussistenza, e i villaggi rurali dominavano il paesaggio, dove la terra rappresentava il cuore della vita economica e culturale. Tuttavia, i sistemi agricoli erano spesso obsoleti e vulnerabili alle fluttuazioni climatiche e alle pressioni fiscali dell’amministrazione ottomana.

Questa realtà, seppur apparentemente statica, era in lenta trasformazione, un cambiamento che subì un’accelerazione con l’arrivo delle prime migrazioni ebraiche. I movimenti sionisti, conosciuti come Aliyah (‘salita’ o ‘ascesa’ verso la Terra Santa), cominciarono a manifestarsi verso la fine del XIX secolo, portando in Palestina ebrei provenienti principalmente dall’Europa orientale, spinti dalla crescente necessità di fuggire dalle persecuzioni antisemite.

I primi insediamenti si svilupparono pacificamente attraverso l’acquisto di terre, spesso da proprietari terrieri assenti che vivevano in altre città o regioni dell’Impero Ottomano. Tali appezzamenti, talvolta marginali e poco produttivi, divennero il nucleo delle prime colonie ebraiche, segnando l’inizio di un cambiamento che avrebbe avuto profonde ripercussioni sulla regione.

Gli storici sono soliti indicare il 29 agosto 1897 come l’origine della questione israelo-palestinese, data in cui si tenne a Basilea il Primo Congresso Sionista, un evento cruciale nella storia del popolo ebraico. Organizzato da Theodor Herzl, il giornalista e intellettuale austriaco considerato il padre del moderno movimento sionista, il congresso tracciò le linee fondamentali del sogno millenario del ritorno a Sion. Vi parteciparono circa 200 delegati da diversi paesi, uniti nell’intento di definire una strategia comune per il futuro degli ebrei. Durante i lavori, furono fissati obiettivi chiave, come la creazione di una ‘casa nazionale’ per il popolo ebraico in Palestina (senza menzionare esplicitamente la creazione di uno Stato), la promozione dell’immigrazione ebraica verso la Palestina e il sostegno a progetti che favorissero gli insediamenti, come il Fondo Nazionale Ebraico, destinato a finanziare l’acquisto di terre.

Le parole di Herzl, incise nel suo diario all’indomani del congresso, “A Basilea ho fondato lo Stato ebraico”, rappresentano una dichiarazione di straordinaria importanza storica e simbolica. Non si tratta solo dell’espressione di un’intuizione o di un desiderio, ma di un momento decisivo che ha ridefinito il destino del popolo ebraico. Essa segna una vera e propria svolta: dal passivismo all’azione, dall’attesa messianica alla costruzione concreta di un futuro autonomo, e dalla visione della comunità ebraica come soggetto subordinato alle circostanze storiche alla consapevolezza di un popolo capace di plasmare il proprio destino attraverso un progetto politico ambizioso e consapevole. Per secoli, le comunità ebraiche avevano accettato la propria condizione di ‘popolo senza terra’, destinato a vivere in diaspora nell’attesa di una redenzione miracolosa, sperando nella venuta del Messia che avrebbe portato salvezza. Con il sionismo, questa prospettiva subì una trasformazione radicale. All’attesa subentrò la volontà di agire, utilizzando strumenti diplomatici, politici e istituzionali per rivendicare il diritto all’autodeterminazione.

Così, i leader sionisti cercarono l’appoggio del governo britannico, sottolineando il vantaggio strategico di avere un nuovo alleato per la protezione del Canale di Suez. I britannici, impegnati a cercare sostegni per il loro sforzo bellico, accolsero favorevolmente la proposta, segnando il primo passo concreto verso la realizzazione dell’idea di uno Stato ebraico.

Con la Dichiarazione di Balfour, emanata il 2 novembre 1917, il governo britannico ufficializzò il proprio impegno a sostenere la creazione di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina, dichiarando:

“Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.

Un documento storico che segnò una svolta cruciale per il movimento sionista, spianando la strada a una futura presenza politica ebraica nella regione. Sebbene riconoscesse ufficialmente le aspirazioni del popolo ebraico, il testo rifletteva la complessità e le tensioni intrinseche nel progetto. Da un lato, sanciva un impegno concreto per la creazione del focolare nazionale; dall’altro, sottolineava l’importanza di rispettare i diritti delle comunità non ebraiche già presenti in Palestina, così come quelli degli ebrei che vivevano al di fuori di essa.

Questo fragile equilibrio avrebbe determinato il futuro di una regione che, a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale e dal crollo dell’Impero Ottomano, divenne teatro di profondi cambiamenti politici e sociali.

Nel 1920, la Gran Bretagna ottenne dalla Società delle Nazioni il mandato per amministrare il territorio (Mandato Britannico per la Palestina, 1923-1948), assumendosi una duplice missione: da un lato, promuovere lo sviluppo economico e sociale del territorio; dall’altro, mantenere un delicato equilibrio tra gli interessi della comunità araba autoctona e le aspirazioni del movimento sionista.

Tuttavia, le contraddizioni insite nel Mandato portarono a quello che sarebbe stato definito il “duplice obbligo” della Gran Bretagna, sia verso l’Organizzazione Sionista sia verso gli arabi palestinesi, trasformando la Palestina storica in una terra di aspirazioni contrapposte. Da un lato, il movimento sionista vedeva nell’amministrazione britannica una concreta opportunità per realizzare il tanto desiderato ‘ritorno’ e costruire un focolare nazionale. Dall’altro, la popolazione araba palestinese percepiva il Mandato come l’inizio di un futuro segnato da espropriazioni, marginalizzazione e perdita della propria terra e identità.

Una contrapposizione di visioni e interessi che gettò le basi per un conflitto sempre più acceso, in cui il tentativo britannico di mediare tra le parti si rivelò spesso inefficace, alimentando tensioni che avrebbero segnato indelebilmente la storia della regione. La Grande Rivolta Araba del 1936-1939, scaturita dall’opposizione al dominio britannico e all’immigrazione sionista, segnò una fase cruciale nella storia del conflitto. Il fallimento della Commissione Peel del 1937, istituita per indagare sulle cause della rivolta e proporre una soluzione a due stati, rivelò l’incapacità della Gran Bretagna di trovare una soluzione efficace.

Con il Libro Bianco del 1939, la Gran Bretagna cercò di mediare tra le parti proponendo di limitare i flussi migratori ebraici e di lavorare verso la creazione di uno stato palestinese indipendente. Tuttavia, questa soluzione si rivelò insoddisfacente per entrambe le comunità: gli ebrei, in fuga dalle persecuzioni naziste, si trovarono con possibilità limitate di trovare rifugio in Palestina, mentre gli arabi palestinesi considerarono il piano tardivo e inadeguato rispetto alle loro legittime rivendicazioni politiche e territoriali.

Questi eventi evidenziarono il crescente riconoscimento internazionale delle difficoltà di convivenza tra le due comunità e la complessità della questione territoriale. La Grande Rivolta, le proposte di spartizione e l’ambivalenza delle politiche britanniche segnarono un punto di non ritorno. Nel 1947, ormai incapace di gestire la crisi e le crescenti tensioni, la Gran Bretagna restituì il mandato alle Nazioni Unite, l’organismo nato dalle ceneri della Società delle Nazioni.

Il 29 novembre dello stesso anno, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 181 che sancì la spartizione della Palestina. I principali punti includevano la creazione di due stati indipendenti: uno stato israeliano, che avrebbe ricevuto il 55% della Palestina del Mandato, con una popolazione di circa 600.000 abitanti; uno stato palestinese che, privo di continuità territoriale, con Gaza e la Cisgiordania separate, avrebbe ottenuto il 45% del territorio, con una popolazione di circa 1 milione di abitanti; un territorio, che includeva Gerusalemme e Betlemme, posto sotto un regime internazionale speciale, amministrato direttamente dall’ONU, al fine di garantire la protezione dei luoghi santi .

La Risoluzione non si limitava a delineare i confini territoriali, ma includeva anche disposizioni per una cooperazione economica tra i due stati proposti. In particolare, il piano prevedeva un’unione economica: i due stati avrebbero dovuto collaborare in ambiti strategici, come la gestione delle risorse idriche, le infrastrutture di trasporto, e il commercio. L’obiettivo era garantire la stabilità economica e uno sviluppo equilibrato nella regione; l’accesso reciproco: i due stati avrebbero dovuto garantire libertà di transito per persone e beni, specialmente per le aree interdipendenti; la gestione condivisa: le risorse naturali, come l’acqua (fondamentale in una regione arida), sarebbero state soggette a una gestione coordinata per prevenire conflitti e squilibri economici.

La proposta venne accolta con favore dal movimento sionista, che vide nella creazione di uno stato ebraico la realizzazione delle proprie aspirazioni nazionali, ma non soddisfò le richieste del mondo arabo, che percepì la spartizione come ingiusta, dal momento che il territorio assegnato agli ebrei era proporzionalmente maggiore rispetto alla loro presenza demografica.

Quando la Gran Bretagna terminò il suo mandato il 14 maggio 1948, il leader sionista David Ben-Gurion proclamò unilateralmente la nascita dello Stato di Israele, evento che inaugurò una memoria storica profondamente divisiva.

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