Pubblichiamo, a un mese dalla scomparsa di Siniša Mihajlović, il ricordo scritto dal suo primo collaboratore tecnico, Emilio De Leo. De Leo ci ha inviato il pezzo prima che ci lasciasse anche Gianluca Vialli, al quale non fa quindi cenno
Ho conosciuto Siniša Mihajlović nel 2008. Il mister era stato il secondo di Roberto Mancini all’Inter tra il 2006 ed il 2008, in team anche con Fausto Salsano, mio concittadino cavese che avevo avuto modo di conoscere tempo prima per motivi lavorativi.
Nel 2009, quando all’Inter Josè Mourinho subentrò a Mancini, Siniša cominciò ad allenare come primo tecnico di squadra al Bologna. Fausto gli suggerì di avvalersi della mia collaborazione e lui accettò. Fu una collaborazione da remoto, analizzavo gli schemi e le peculiarità delle squadre che il Bologna avrebbe affrontato e davo delle piccole dritte per ottimizzare le esercitazioni dei suoi giocatori.
La nostra collaborazione a distanza divenne poi concreta, nel 2012, quando Mihajlovic fu ingaggiato dalla Federazione Serba come allenatore della Nazionale e mi volle accanto a lui, spalla a spalla. Da quel momento non ci siamo più separati, fino allo sfortunato epilogo della sua breve e mirabile vita.
Sin dalla mia prima esperienza al suo fianco, a Belgrado, potetti costatare come Mihajlović tenesse all’intensità degli allenamenti. Esigeva ad esempio che, anche durante le partitine di training, i calciatori indossassero i parastinchi, perché voleva che fossero partite vere, con la loro carica di aggressività. Ovviamente questo comportava anche nervosismi durante gli allenamenti, che lui peraltro gestiva alla grande, grazie al suo ineguagliabile carisma.
Dopo l’esperienza con la nazionale serba, lavorammo a Genova con la Sampdoria, a Milano col Milan, al Torino, allo Sporting Lisbona ed infine di nuovo al Bologna. Qui prendemmo la squadra a campionato in corso, quando stava al penultimo posto in classifica, ad alto rischio retrocessione. La prima partita fu a Milano contro l’Inter di Spalletti. Siniša chiese ai calciatori di entrare in campo con personalità, senza soggezione alcuna e pretese che giocassero col baricentro alto. Vincemmo uno a zero, fu un’iniezione di autostima determinante per il prosieguo del campionato, che poi chiudemmo al decimo posto, salvandoci con due turni di anticipo. Il mister teneva ben correlate la tecnica e la qualità morale della squadra, voleva e riusciva ad ottenere che le sue squadre avessero una chiara personalità.
Sotto l’aspetto tattico in linea generale i suoi schemi hanno privilegiato la difesa a quattro, 4-2-3-1 e 4-3-3 i sistemi di gioco più frequenti, comunque tenendo conto delle caratteristiche dell’organico, tant’è che negli ultimi due anni al Bologna ha adottato il 3-5-2. Puntualmente: con la Serbia, la Sampdoria e nei primi due anni a Bologna abbiamo messo in campo i calciatori col 4-2-3-1; nel secondo anno alla Samp ed a Torino giocammo col 4-3-3; al Milan inizialmente adottammo il 4-3-1-2 , poi il 4-3-3 infine il 4-4-2; come appena ricordato, negli ultimi due anni al Bologna abbiamo giocato col 3-5-2.
Sapeva infondere fiducia a tutti i componenti del gruppo, dai più giovani ai più esperti. Si pensi alla valorizzazione di giovanissimi quali Romagnoli, Correa, Muriel, Gabbiadini, Soriano alla Sampdoria; ai Donnarumma, Calabria, Locatelli al Milan; e ancora alle valorizzazioni di Belotti, Lijaic, Iago Falque, Zappacosta, Baselli, Benassi al Torino ed ai tanti ragazzi della nazionale serba lanciati, come Tadic, Mitrovic, Matic, Lazovic, Nastasic, Djuricic, Markovic, Zivkovic etc. Come pure alla scoperta di giovani talenti nell’ultima esperienza di Bologna come Orsolini, Barrow, Theate, Tomiyasu, Hickey, Dominguez, Schouten, Svanberg o alla rivalutazione di giocatori più esperti sempre a Bologna di Palacio, Medel, Arnautovic.
Per lui la differenza non la faceva l’età, ma il talento e la voglia del calciatore di mettersi in gioco, la sua carica agonistica, la sua ambizione a migliorarsi. A tutti chiedeva di non avere paura, di rischiare, di giocare in fiducia, se le cose fossero andate male se ne sarebbe assunto lui le responsabilità. Faceva da scudo rispetto alle pressioni esterne.
Univa alla gestione collettiva della squadra la cura della crescita individuale, spronava i calciatori cercando di sfruttare i punti di forza e di debolezza della loro personalità. A fine allenamento restava sempre con i più giovani, ma qualche volta anche con calciatori già maturi, a lavorare individualmente sui loro deficit tecnici e caratteriali. Un esempio, tra gli altri: Medel è alto 1,71cm e lui lo utilizzava come centrale di difesa, chiamandolo a marcare anche centravanti come Ibrahimovic, Lukaku, Dzeko, Vlahovic… che sfiorano i due metri! Conoscendone l’orgoglio, gli diceva davanti a tutti: ‘Te la senti di marcarlo, ti porto una scala? O vuoi che ti cambi?’ e Medel non si tirava indietro, anzi dava ancora di più. In altri casi, se un calciatore era più fragile caratterialmente, lo richiamava solo a quattr’occhi, nella sua stanza. Insomma Siniša Mihajlović possedeva anche una notevole sensibilità psicologica, virtù indispensabile nella guida di un team.
Era duttile nelle letture a partita in corso. La base di partenza era sempre l’aggressione dell’avversario e la ricerca dell’imprevedibilità, dell’uno contro uno per creare superiorità numerica, pronti al contropressing quando perdevamo palla. Se però il contropressing non ci riusciva, non esitava ad abbassare il baricentro per difendere la porta. Il mister era pronto a cambiare la forma del sistema di gioco in corso di partita, interpretava gli schemi in modo dinamico, senza fondamentalismi tattici. Prima della partita, e anche durante il match, gli illustravo le analisi tattiche e le alternative di gioco che potevamo adottare, poi lui sceglieva quelle che lo convincevano di più. Sono state rare da parte sua le interpretazioni speculative della partita; se eravamo sotto nel punteggio, cambiava schemi ed uomini per ribaltare il risultato, anche rischiando di subire altre reti; se stavamo pareggiando non si accontentava mai e cercava la vittoria, anche quando il punto ci avrebbe fatto comodo. In questo io e lui ci bilanciavamo egregiamente, lui irruento e offensivista, io più riflessivo e prudente.
Ricordo praticamente tutto, ogni momento della mia storia professionale con lui. Alcune vittorie sono indelebili nella mia mente. La prima con la nazionale serba ad esempio. Fu nel ‘12, quando nelle qualificazioni per i mondiali di Brasile 2014 battemmo il Galles per sei a uno, un Galles che annoverava tra le sue file Bale e Ramsey. E poi, i due derby vinti a Genova; la vittoria per 3 a zero nel derby di Milano.
Mi emoziona ancora il ricordo del suo rientro sul campo di allenamento del Bologna, dopo il primo trapianto. Preparavamo la partita contro l’Atalanta, allora fortissima; lui assistette all’allenamento e, con la sua voce ancora flebile, disse ai ragazzi: ‘Per come vi siete allenati non dovete temere nulla!’ Vincemmo 2 a 1 ed a me parve cosa naturale, per niente sorprendente, vista la carica che ci aveva dato. Infine ad aprile scorso andammo a vincere ancora a Milano contro l’Inter, praticamente determinando lo scudetto poi vinto dal Milan. Non c’era quel giorno, in panchina lo sostituivo io, ma lui dall’ospedale aveva parlato alla squadra, infondendole ancora una volta un’incredibile voglia di dare tutto in campo.
A me e al suo staff tecnico ha lasciato innanzitutto un messaggio esistenziale: nello sport come nella vita, se dai tutto te stesso non devi temere nulla. Sotto questo punto di vista, ne sono certo, la sua anima oggi sta sicuramente in pace: lui ha dato tutto se stesso sempre e in ogni circostanza, la sua battaglia della vita non l’ha persa, l’ha vinta!
Mi piace anche sottolineare la sua determinazione nell’affrontare i momenti negativi. Quando una partita era andata male o magari l’andamento generale della squadra era insoddisfacente, non lasciava passare un minuto, dico un minuto. A qualsiasi ora, anche alle tre, quattro di notte, sull’aereo o nel suo ufficio, ci chiamava a mettere a fuoco le criticità e lui era il primo a mettersi a nudo, a discutere senza infingimenti sui suoi errori come sui nostri. È stato proprio grazie a questa sua attitudine che tante volte, proprio ragionando sulle cose che non andavano per il verso giusto, abbiamo cambiato sistema di gioco, riuscendo poi a venire a capo della situazione. Anche questa è una lezione di Siniša che resterà a vita, a me ed a quanti hanno avuto il privilegio di lavorare con lui: non bisogna aver paura di ammettere i propri errori e di cambiare!
Confesso, in chiusura, che stargli accanto è stato impegnativo per quanto ha accresciuto il mio senso del dovere e l’assunzione di responsabilità. Il mister era molto esigente sul lavoro ed esigeva lo stesso dai suoi assistenti. Occorreva essere sempre sul pezzo. Ne sono però uscito temprato sotto il profilo caratteriale ed anche tecnico.
Oggi sono abituato a cercare ed a trovare soluzioni necessarie innovative sotto pressione ed in poco tempo. E se la professionalità è la capacità di fare le cose perbene in velocità, gli devo la mia crescita professionale. Più ancora che come professionista però, sono cresciuto come uomo. Siniša Mihajlović era uno apparentemente burbero, ma leale ed esigeva lealtà. Nei momenti di maggiore difficoltà ha sempre legittimato le mie scelte ed io gli ho dato lealtà e fedeltà.
Alle sue esequie hanno partecipato tante personalità, delle istituzioni, della società civile e dello sport. Mi sono passati davanti Mancini, De Rossi, Cairo, Ferrero, Lotito, Saputo, Totti, Donnarumma, tanti calciatori. Li guardavo e mi dicevo: ‘Ognuno di loro almeno una volta avrà discusso col mister, ma ognuno almeno una volta avrà anche beneficiato della sua carica e della sua ambizione!’
Foto by Emilio De Leo