L’Autore, già Direttore Generale di ARPA Lazio, è Responsabile Scientifico della “Scuola di Rigenerazione Urbana Sostenibile”.
L’occasione di tornare a parlare di colonie, e in particolare di quelle marine, è data dalla presentazione ad inizio febbraio del nuovo Piano Regolatore Generale del Comune di Cesenatico che assume come strategia la rigenerazione e riqualificazione del patrimonio esistente, individua la “sfida più importante” nella “città del mare” e, in particolare, nella “città delle colonie: 70 colonie da trasformare da edifici fatiscenti a strutture turistiche all’avanguardia”. Una sfida da vincere anche attraverso “la massima semplificazione possibile delle normative così da permettere agli imprenditori di investire e rilanciare turisticamente il territorio”.
Una interessante strategia che coniuga memoria del passato e visione del futuro.
Le colonie marine, come anche quelle montane e quelle fisioterapiche, richiamano una immagine di vacanza desueta, ma anche di cura e socialità di altri tempi, con in filigrana una dignitosa povertà.
Meriterebbero certamente ben altra riflessione sotto molteplici aspetti tanto hanno riguardato la vita di varie generazioni che ce le avrebbero potute raccontare in diretta se, come le colonie, non si fossero anch’esse accomiatate dalla vita e dal vissuto.
Rimangono le loro memorie, insieme ai numerosi spezzoni di film Luce che ci restituisce un socialnetwork come Youtube e, più di recente, grazie agli autorevoli reportage giornalistici di Sara Bertolucci per La Repubblica, ai molteplici book fotografici tra cui quelli realizzati da Fabio Gubellini e Lorenzo Mini, ai siti dedicati al loro abbandono come Decadence Urbex e BiSides, alle mostre e convegni di cui quello itinerante di Italia Nostra appare il più importante, ai vari contributi ricognitivi a partire da quelli di Carlo Alberto Pari, agli studi e ricerche universitarie sulle architetture delle colonie come quelli svolti dal Politecnico di Milano, a molto altro ancora, tanto da riempire una intera bibliografia e un’ampia biblioteca.
Tutti testimoniano di una diffusa attenzione alla questione, pochi si confrontano con possibili proposte, cosicché l’abbandono e l’oblio, che si accompagnano alla loro memoria e alla loro stessa storia, vengono inevitabilmente a riguardare anche gli edifici ed i siti ad essi dedicati.
Ma di cosa stiamo parlando? Se dovessimo sintetizzare in alcuni dati quanto variamente riportato nelle fonti sopra richiamate, dovremmo riconoscere innanzitutto che si è di fronte a un fenomeno assai importante. Fonti autorevoli quali l’Istituto per i beni culturali dell’Emilia-Romagna indicano che solo nella riviera romagnola se ne contano più di duecento in soli ottanta chilometri di costa: di esse, solo una trentina (non più del 15%) sono state realizzate tra le due guerre.
A livello nazionale non è purtroppo disponibile una ricognizione esaustiva. L’unica indagine sistematica è limitata al periodo tra il 1922 e il 1944, quella curata da Arne Winkelmann nel 2015 che porta alla individuazione di 334 colonie di cui 159 marine, 100 montane e 75 elioterapiche.
Rispetto a ciò è opportuna una riflessione tutt’altro che marginale. Se dovessimo grossolanamente riportare le sole 159 colonie marine del ventennio al peso del 15% sul totale prima richiamato per quelle romagnole, giungeremmo ad un totale nazionale di circa 1000 manufatti a cui aggiungerne alcune centinaia montane ed elioterapiche; una dimensione importante che meriterebbe ben altra verifica di dettaglio.
Nel merito, va evidenziato quanto lo studio costituisca un esame assai accurato: nome, committente, località, progettista, anno di costruzione, capacità, stato, fotografie, oltre ad altre informazioni descrittive e bibliografiche.
Un esame che ripropone le colonie per tipologie articolandole poi geograficamente per aree naturali, regioni, province, comuni.
La distribuzione territoriale che ne risulta è assai eterogenea e conferma quanto un simile fenomeno abbia riguardato prevalentemente la costa toscana e quella romagnola e, più in generale, le Regioni del nord in cinque delle quali sono concentrate più della metà delle colonie: 54 in Emilia-Romagna, 34 in Toscana, 32 in Liguria, 26 in Veneto e 22 in Lombardia.
Strutture promosse dalle istituzioni centrali e locali di allora, oltre ad ordini religiosi, enti di beneficenza e assistenza, ma anche imprese. Sono ben 24 le iniziative promosse a favore dei figli dei propri dipendenti. Oltre a Ferrovie dello Stato che ne realizzarono ben sette, vi si annoverano Agip, Barilla, Cotonificio Dell’Acqua, Edison, ENEL, Fiat, ILVA, Italcementi, Lancia, Lanerossi, Montecatini, Motta e Olivetti.
Rispetto ad esse, un richiamo va inoltre fatto alla loro architettura in quanto in alcuni casi le colonie furono espressione innovativa del linguaggio architettonico futurista, funzionalista del periodo tra le due guerre.
Diversi gli edifici che si potrebbero definire imponenti, i più noti di quel periodo: la Colonia Novarese di Rimini, La Colonia Le Navi di Cattolica, la Colonia 12 Stelle di Cesenatico, la Colonia Torre Fiat di Marina di Massa, la Colonia Marina di Chiavari. Discorso a parte riguarda invece la Colonia Marina Bolognese, realizzata a Rimini nei primi decenni del 1900.
Il quadro che ne risulta evidenzia appieno, però, lo stato di crisi complessivo di queste strutture, a partire dal fatto per più della metà non se ne conosce la fruizione attuale e nemmeno lo stato del manufatto. 83 sono invece quelle ancora utilizzate, ma di esse solo 3 sono ancora Colonie mentre altre 80 sono diversamente e parzialmente riutilizzate essendo destinate alle più varie funzioni: prevalentemente alberghi e centri congressi, scuole e appartamenti, ma anche aziende di soggiorno, centri anziani e disabili, impianti sportivi e ricreativi, musei, ospedali, ostelli, residence turistici, vigili del fuoco e persino night club.
Tra le principali: Il complesso di colonie fasciste a Calambrone di Pisa, la colonia Dalmine a Riccione, la colonia Augusto Murri di Rimini, la colonia Novarese, la città delle colonie di Ponente e Levante di Cesenatico, la colonia di Chiavari, la colonia Olivetti di Pietra Ligure, la colonia montana IX Maggio a Poggio di Rojo dell’Aquila.
Una nota, infine, sullo stato attuale delle altre 82 di cui si sa qualcosa: 43 sono quelle demolite, 39 sono quelle abbandonate.
In conclusione, lo si ripete, una dimensione imponente che sarebbe un errore ignorare.
Un grave errore a cui va posto rimedio e in modo qualificato, non certo riproponendo le trascorse funzioni ma piuttosto riutilizzando spazi e volumi in modo originale e innovativo, rigenerativo, così da evitare che prima abbandonate, poi ruderi, infine demolite, ne rimangano i siti, appetibili per la loro interessante localizzazione urbana e turistica; ovvero vengano ristrutturate ridedicandole linearmente alle funzioni mature se non obsolete cui sono predisposte, quelle residenziali e alberghiere.
Funzioni non certo da rigettare a priori, ma eventualmente da rileggere in modo originale e contestualizzato all’attuale situazione sociale ed alle prossime prospettive del settore.
Ci si riferisce certamente al turismo – il caso del Comune di Cesenatico ne è un esempio – ma cogliendo l’occasione per un approccio che proponga una offerta innovativa, ancora più attenta a cultura e natura.
Ci si riferisce alla nuova esperienza dei condhotel con la loro offerta in cui si integrano stanze, miniappartamenti e servizi dell’accoglienza e dell’ospitalità.
Ci si riferisce all’housing sociale, alle abitazioni collettive, alle case di prima accoglienza, alle poste di emergenza, alle residenze collettive, ai poveri in generale: non cero ghetti ma esempi di sensibilità sociale e di diffusione dei diritti.
Tutti questi non sono infatti argomenti estranei al tema quando ad essi si pensa in termini di rigenerazione urbana e di sostenibilità e quando la si intende fondata sul riuso del patrimonio esistente.
Un patrimonio, peraltro, in gran parte pubblico se non di grandi imprese sicuramente sensibili al sociale quanto a un loro eventuale riuso sulla base di una rivalorizzazione innovativa degli immobili.
La rigenerazione urbana, però, può essere molto altro ancora: ben altre funzioni possono riguardare le medesime colonie con investimenti privati oltre che pubblici e in campi innovativi e competitivi.
Funzioni connesse alla conoscenza, alla ricerca e al loro indotto: funzioni in campo scientifico, tecnologico e digitale, e non solo.
In conclusione, è possibile, riconoscere alle colonie un valore storico-culturale identitario a partire da tante iniziative locali?
È pensabile che il patrimonio di colonie diventi un asset strategico nazionale su cui investire come tale?
È possibile lanciare un concorso (meglio ancora un bando con finanziamento) per idee “rigenerative” delle colonie?