L’Autrice, architetto, ha insegnato “Tecniche di Rappresentazione” alla Facoltà di Architettura dell’Università Roma Tre.
Nel secolo scorso, il way-of-life statunitense è stato fonte di ispirazione per l’habitat costituendo, in tal modo, una sorta di modello e condizionando i comportamenti residenziali a livello mondiale.
L’abitazione americana, come peraltro la cinematografia ci ha abituato a conoscere, ha costituito da sempre un esempio da emulare. Fin dagli anni ’50 la cucina tecnologizzata con gli elettrodomestici o, meglio, lo spazio unico tinello-cucina ha rappresentato il cuore della casa, il punto d’incontro della famiglia. Tipico è il momento del breakfast, dove bambini e adulti si scambiano gli auguri di «have a nice day» tra le uova fritte con il bacon e il latte con i cereali. Quante coppie in crisi il cinema ci ha mostrato nella cucina-tinello? E quante coppie vi si sono ricongiunte? “Non mangiate le margherite” di Charles Walter è un divertente film del 1960 – con Doris Day e David Niven – e rappresenta perfettamente lo stereotipo dell’American way-of-life. Il film può essere considerato metafora della contrapposizione tra campagna e città, dove quest’ultima è il luogo di perdizione per antonomasia, pieno di tentazioni, specialmente quella dell’adulterio, mentre la suburbia è rappresentata come il luogo della socializzazione, delle iniziative sociali aggreganti e delle buone azioni. Il senso del neighborhood suburbano sembra proteggere i valori sacri della coppia e della famiglia, i quali trionfano sempre sul male. Nella casa di campagna in “Non mangiate le margherite” ci sono moglie, suocera, quattro figli e il cane che s’incontrano tutti nella cucina (all’americana per l’appunto) e i valori della massaia di buon cuore vincono sull’ambizione del marito che ha il suo luogo deputato nel dowtown. Doris Days diventa in quegli anni la protagonista di una serie di commedie di successo incarnando l’immagine della ragazza suburbana della “porta accanto”. Eletta “fidanzatina d’America” impersona, in quasi tutti i film, lo stereotipo della perfetta house-wife.
Il modello dell’abitazione suburbana ha trovato un vasto consenso nella cultura borghese statunitense (meno tra gli intellettuali e artisti); il famoso storico e critico dell’architettura Lewis Mumford in The City in History affermava che i costruttori della suburbia hanno fatto «evolvere una nuova forma di città». Qui si includono quelle realtà urbane che rappresentano un’idea di società e un immaginario comune come le “città perfette”, con tutte le case uguali, i giardini curati, abitate da famiglie per bene. È così che molti immaginano la città che rispecchia una società “felice”, la città ideale, senza traffico, a bassa densità edilizia, ognuno con il proprio giardino e molti spazi verdi.
Saranno molti i film negli anni che contribuiranno a diffondere a livello di massa l’American way-of-life e a rendere particolarmente familiari alcune realtà urbane e periurbane statunitensi. Il regista Toddy Haynes, famoso per la creazione di atmosfere rarefatte, ha diretto “Lontano dal paradiso” (2002) ambientato nella suburbia conservatrice del Connecticut nel 1957. Il film tratta i temi dell’omosessualità e del razzismo all’interno della prudish society. Cathy Whitaker è una madre di due bambini e moglie irreprensibile di Frank Whitaker, venditore di successo di televisori. La loro unione è il modello della perfetta famiglia americana in cui tutto il neighbourhood si identifica. Cathy è una casalinga che si dedica alla beneficenza e organizza party per le persone che contano. Lo sguardo del regista si sposta sensuale sugli spazi esterni, talvolta riflessi, sul mondo ovattato della natura del New England. Tutto appare perfetto, fino a quando lei non conosce un giovane uomo, Ray, il suo giardiniere, con il quale intrattiene brevi e piacevoli chiacchierate, mentre suo marito resta al lavoro fino a tardi. Proprio in occasione di un suo ritardo, Cathy decide di andare a trovare Frank in ufficio sorprendendolo in palesi rapporti omosessuali con un uomo conosciuto in un bar. Sarà una lenta e progressiva rottura di una coppia “perfetta”.
Tra i film più recenti troviamo “Suburbicon” di George Clooney (2017), una black comedy che è una esplicita denuncia nei confronti delle persone che vivono in questo tipo di insediamento. Il regista riprende un vecchio soggetto scritto da Joel ed Ethan Coen del 1986 e, in questo noir-grottesco, si riconosce chiaramente la loro mano. L’ubicazione è in una generica suburbia statunitense – girato in California – alla fine degli anni ’50 e questo modello abitativo è il vero protagonista del film. Lì si trasferiscono a vivere i Meyers, una famiglia di neri, padre, madre e figlioletto dodicenne: un’integrazione non voluta, che coglie tutti di sorpresa e che non aveva precedenti. Questa storia è tratta da un fatto realmente avvenuto a Levittown in Pennsylvania, nell’estate del 1957. Nel film tutto ruota attorno alla famiglia di Gardner Lodge la cui moglie Rose è rimasta paralizzata in un incidente d’auto. La coppia vive con il figlioletto Nicky e Margaret, la gemella di Rose venuta a dare una mano alla sorella. A un certo punto subiranno una feroce rapina violenta durante la quale Rose resterà uccisa, quindi tutto s’incentrerà su Gardner, sui problemi con l’assicurazione e su tutto ciò che avverrà con una crescente goffaggine. L’evento del furto costituirà uno scandalo e scatenerà nel neighbourhood una ribellione violenta degli abitanti xenofobi e razzisti. Nel rapporto tra Nicky e Andy, il bambino nero, si scorge una possibile apertura e perfino solidarietà. Nicky costituisce lo sguardo innocente attraverso il quale lo spettatore scopre man mano le cattiverie e le perversioni della prudish society e, rappresenta l’unica speranza nei confronti del futuro.
In alcuni film, il modello urbano proposto dal cinema assomiglia molto a quello immaginato da Frank Lloyd Wright già negli anni ’30. Wright per il suo progetto urbano di Broadacre City aveva ipotizzato un acro di terra (circa 4.000 mq) per ogni insediamento abitativo unifamiliare contribuendo alla formazione dell’imagerie americana. Mentre in Europa Le Corbusier, con la Ville Contemporaine del 1922, supponeva una città di torri disposte in un parco razionalizzando i trasporti privati, la città di Wright presentava un’espansione prevalentemente orizzontale, decentrata e vicina alla natura, con una mobilità individuale pressoché illimitata. «Let the auto take the city to the country» scrisse Wright nel suo libro The Disappearing City del 1934. In tale occasione presentò al pubblico il progetto di Broadacre City con una densità abitativa che varia da cinque a sette abitanti ad ettaro. In esso definiva un sistema di superstrade a 12 corsie, una griglia che accoglieva tutto al suo interno: fabbriche, attrezzature collettive e residenze. Oltre alla tipologia della casa unifamiliare si trovavano anche delle torri residenziali, ben distanziate tra loro, di 15 o 20 piani su piastre attrezzate per i garages e i servizi.
Le matrici del sub-urbium moderno sono da rintracciarsi a Londra tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, in una fase precedente all’era delle automobili, sotto Giorgio III, quando si fece sentire l’esigenza di nuovi insediamenti per la prosperosa classe dei mercanti. Questi costruirono piccole casette emulando lo stile delle case gentilizie di campagna e gettando, in tal modo, le basi per il futuro immaginario suburbano che il movimento del romanticismo contribuì poi a sviluppare. Il modello della suburbia è da individuare anche nella filosofia jeffersoniana del gentiluomo di campagna, poi, l’industrializzazione fece il resto con le facilitazioni dei trasporti e i benefici economici per molti. La “causa suburbana” come principio etico, ambiente ideale e confortevole per crescere i propri figli, fu sostenuta perfino da famosi predicatori congregazionalisti, mentre la veste ideale architettonica fu fornita Andrew Jackson Dowining con i suoi libri di raccolte di progetti.
Dall’espansione suburbana si è passati poi alla formazione delle aree metropolitane, che si possono datare subito dopo la seconda guerra mondiale; dovranno, invece, passare altri quindici anni per cominciare a parlare di megalopoli. Lo sviluppo di una politica dei trasporti intesa a favorire la suburbanizzazione contribuisce a trasformare il centro urbano nel luogo di “raccolta” dei poveri mentre la periferia, con lo sviluppo delle case unifamiliari e al contrario delle prime città industriali, diventa il cuore della nuova configurazione urbana. In tal modo, benché la maggior parte della popolazione viva nelle aree metropolitane, la densità abitativa delle metropoli è notevolmente più bassa che in precedenza a causa della tipologia residenziale, dei servizi con ampi parcheggi e delle superstrade. Nascono, infatti, nuove tipologie d’attrezzature ricreative e di servizi, ciascuna con il proprio parcheggio, non più legate alle aree centrali, in funzione del raggiungimento con il mezzo privato: motels, drive-in, aree di servizio attrezzate e centri commerciali. L’accessibilità generalizzata è, dunque, un fattore determinante per lo sviluppo delle aree metropolitane. I servizi e le attrezzature collettive dei piccoli centri entrano in crisi, chiudono prima i teatri e poi molte sale cinematografiche perché non riescono a competere con i cinema drive-in da un lato, e con il diffondersi della televisione dall’altro.
Contro il diffondersi dell’urban sprawl negli anni ’80 si sviluppa, in contrapposizione, un movimento chiamato New Urbanism e definito dal New York Times come «il più importante movimento di riforma nel campo dell’architettura degli ultimi vent’anni». Tra i teorici del movimento, Andres Duany e Elizabeth Plater-Zyberk realizzano nel 1983 Seaside in Florida, la prima città costruita sui principi riformatori. Da allora sono stati progettati e costruiti centinaia di villaggi, quartieri e distretti, e recuperate o riurbanizzate molte aree degradate. Il New Urbanism propone la riscoperta dei valori della città tradizionale, con la mescolanza delle sue funzioni e la sua maggiore densità abitativa, in una sorta di pensiero neo-conservatore in cui “piccolo è bello”. Particolare attenzione è posta nei confronti della progettazione di spazi collettivi per incoraggiare lo spostamento a piedi e l’incontro degli abitanti. Sono prese a modello le piazze italiane in quanto spazi a scala umana e riproposte per valorizzare o recuperare le aree marginali ossessivamente mono-funzionali e trasformarle in quartieri urbani integrati dove, oltre ad abitare, si possa fare shopping, lavorare e passare il tempo libero in aree pedonali e piste ciclabili. Ottime intenzioni a livello urbanistico che però degenerano a livello architettonico in un saccheggio formale delle forme storiche dove la copia sostituisce il modello in una totale libertà di scelte stilistiche e il neo-regionalismo soppianta tout-court il modernismo.
In Europa, o meglio in Gran Bretagna, il movimento, a partire dagli anni ’90, è stato sostenuto dal Principe Carlo che, con Leon Krier e Maurice Culot, aveva fondato una scuola d’architettura (fino al 2018 poi diventato un Master) dove, da un lato, si riscopriva la manualità del disegno dal vero ma, dall’altro, si catalogava come good example tutto ciò che è anteriore al Novecento e con bad example tutto ciò che è posteriore. Ciò ha portato a una posizione conservatrice che, con una totale assenza critica, ha negato i valori di un secolo di storia architettonica.
Didascalie
- Da American Society of Landscape Architecture Journal
- “Non mangiate le margherite” di Charles Walter, 1960
- Schizzo di Frank Lloyd Wright per Broadacre City, 1934