C‘è un passaggio nel romanzo Almarina di Valeria Parrella, finalista al Premio Napoli 2020, da cui vorrei partire per un breve percorso storico di un luogo affascinante ed ancora incontaminato del litorale campano: Nisida.
“….. ogni ministro passa da qua, ogni capo di Stato, ogni ricco ma ricco per davvero, la camorra passa con il sogno di comprarsi tutto, la spiaggia, i bagnolesi e Nisida. Nisida farne un resort, toglierla a chi si pulisce dal piccolo crimine di aver spacciato cocaina per darla a chi si macchia del grande crimine di importarla e venderla… farci attraccare finalmente gli yacht.”.
E’ a Nisida che ha sede L’Istituto Penale Minorile. A Nisida, dal 2003, il Ministero di Giustizia ha istituito il centro Europeo di studi sulla devianza e la criminalità giovanile per sviluppare politiche di contrasto alla devianza e criminalità minorile.
Ma se l’isola che non c’è, l’isola che è un’isola ma nessuno lo sa (Bennato), ha suscitato e continua a suscitare l’interesse di possibili e facoltosi acquirenti, è perché la sua posizione e la sua ricchezza naturalistica e paesaggistica sono di straordinaria rilevanza. In Storie e leggende napoletane, Croce descrive così Nesis, piccola isola: “Un nome che suona dolce come un bel nome di donna … quando, venendo da Napoli per la via nuova di Posillipo … spunta il primo lembo della verde isoletta, … cosparsa di rare case bianche, … nell’abbagliante azzurro del cielo e del mare, una sorta di tenerezza riempie l’anima, come alla vista della leggiadria infantile.”
Il poeta latino Stazio parla della selva che ne copriva la cima. Lucano, delle esalazioni mefitiche che si sentivano. Ateneo, dei conigli che l’abitavano. Plinio, dei suoi asparagi che erano i più saporiti che si conoscessero. Nel periodo repubblicano di Roma apparteneva a Giunio Bruto, uno dei cesaricidi che forse proprio lì organizzò la congiura. Alla sua morte, la moglie Porzia, figlia di Catone l’uticense, vi si suicidò ingoiando carboni accesi per non cadere nelle mani degli eredi di Cesare, Ottaviano ed Antonio, vincitori.
L’isola passò nel Medioevo sotto il dominio della Chiesa napoletana che vi eresse un monastero, probabilmente situato nel punto più alto dell’isola, di Sant’Arcangelo la cui chiesa era dedicata a Sant’Angelo de Zippio, dal nome medioevale di Nisida appunto Zippium. Venduta dalla Chiesa nel 1553 al Piccolomini, duca di Amalfi, l’isola si arricchì del castello dove si tenevano feste e si organizzavano battute di caccia. Dalla fine del Cinquecento passò in mano a vari proprietari, mantenendo sempre la caratteristica di luogo di delizie. Acquistata in periodo vicereale dal Duca d’Alba, fu poi della famiglia Petroni che la possedette per un secolo e mezzo. Riscattata nel 1814 da Murat che vi collocò il lazzaretto, sulla pianta del castello Piccolomini i Borbone costruirono il penitenziario e così rimase a lungo. Nel ventennio fascista il penitenziario fu trasformato in Riformatorio Giudiziario con padiglioni adibiti a colonia agricola per i reclusi. Nel 1936 si realizzò il collegamento definitivo di Nisida alla terraferma. Dal 1948 è casa di rieducazione per minorenni.
Nisida è stata anche teatro di un evento che ricollega tristemente il presente al nostro non lontano passato. Durante l’epidemia di colera della fine dell’Ottocento, nell’insenatura di Porto Paone, “rimase ancorato il vascello-fantasma Carlo Raggio che, con centinaia di morenti a bordo, respinto da tutti i porti, errava per l’oceano e rivolgeva infine la prua verso l’Italia a riportarle i suoi poveri emigranti”. Croce con queste parole ricorda la terribile odissea dei nostri migranti che, giunti in America latina sui cosiddetti vascelli della morte, venivano respinti per la presenza a bordo del colera. Tornata indietro con il suo carico di sofferenti, i morti venivano rapidamente gettati a mare. La Carlo Raggio contò 18 morti per fame nel 1888 e 206 morti di malattia nel 1894, prima di avere il permesso di ancorarsi da Nisida a Napoli.
Forse la vocazione della piccola isola sempreverde è proprio quella dell’accoglienza, della cura dell’anima là dove non è possibile curare i corpi. Il fatto che resti inaccessibile ha consentito di preservare intatto il suo habitat, specie nel versante verso il mare aperto. La natura come balsamo per giovani menti sofferenti che in quel contesto possono ritrovare se stesse.