La linea del colore di Igiaba Scego è nella terna della sezione narrativa del Premio Napoli. Romanzo complesso nell’impostazione narrativa perché l’autrice cerca di tenere le fila di più suggestioni letterarie. Il senso più profondo del testo e le motivazioni che lo hanno determinato si comprendono appieno nel Making of finale, in cui l’autrice ci conduce nel suo laboratorio di scrittura.
La vicenda ha due filoni narrativi. La storia di Lafanu Brown, americana di colore nata da una indigena della tribù Chippewa e da un haitiano, che “sapeva dare forma ai volti”. Scoperta la sua vocazione artistica, dopo una giovinezza segnata da violenze e segregazione, Lafanu compie al contrario la tratta atlantica che le navi negriere facevano cariche della sofferenza degli schiavi sottratti all’Africa, e viene in Europa. La culla stessa del colonialismo. La sua meta è Roma, l’Italia che sta vivendo il suo Risorgimento, dalla cui cultura e storia millenaria Lafanu è affascinata. L’esperienza storica vissuta non ha fatto, però, dell’Italia un paese accogliente. Al contrario il nazionalismo ed il colonialismo del sec. XIX si intrecceranno dolorosamente con il cammino di Lafanu.
L’altro filone narrativo è costituito dalle vicende di Leila, giovane somala, protagonista della parte contemporanea del libro, peraltro segnalato nel testo anche da un diverso carattere tipografico. Leila è la curatrice di una mostra a Venezia sull’artista Lafanu Brown. Ne è affascinata, attraverso le vicissitudini di Lafanu, Leila che è di origini somale ma è italiana e vive a Roma, ripercorre le vicende dell’abolizionismo, del femminismo, delle difficoltà lavorative affrontate da una donna specie di colore e nel XIX sec. La storia di Lafanu sembra rivivere in quella della cugina di Leila, Binti che pensa di poter attraversare il deserto e dalla Somalia, distrutta dalla guerra, arrivare in Italia. Ma i nuovi mercanti di schiavi glielo impediranno con estrema violenza.
E’ la stessa autrice a dirci che nella figura di Lafanu si sintetizzano due donne realmente esistite. Sarah Parker Remond, ostetrica, attivista per i diritti umani, femminista, donna di grande cultura. Una donna nera che ha cercato di essere libera quando era difficile esserlo per i neri in America, nata a Salem e morta a Roma nel 1894. A lei si aggiunge la figura di Edmonia Lewis, scultrice americana che ha lavorato per la maggior parte della sua carriera a Roma. Nonostante sia stata la prima donna afro americana e con origini nativo-americane a raggiungere un riconoscimento internazionale nel campo della scultura, qui in Italia, dove pure ha prodotto la maggior parte delle sue opere, è pressoché ignorata. Come avverrà a Lafanu nel romanzo. Il collante delle vicende di queste tre donne è l’essere vissute a Roma, ombelico del mondo per gli artisti dell’Ottocento, meta privilegiata del Grand Tour, una Roma che donava libertà alle donne di essere se stesse. Sempre nel Making off compare l’appello all’Italia, centro del Mediterraneo, e per tanto tempo centro della storia, a non aver paura oggi del suo passato di scambi e mescolanze, ma anzi a farlo suo, appendendoselo al petto come una medaglia.
L’autrice con questo romanzo chiude la trilogia della violenza coloniale iniziata con Oltre Babilonia e proseguita con Adua.
Nella sua narrativa la Scego mette tanto entusiasmo, impegno e voglia di porsi in prima linea nella battaglia sui diritti dei migranti di ieri e di oggi, contro lo schiavismo di ieri e di oggi. Quello di cui il romanzo pecca è la sovrabbondanza degli input. Il voler tenere in pugno tante tematiche, tutte degne di attenzione ed approfondimento. Tanti personaggi e tante giuste rivendicazioni non aiutano nella lettura. Tutto giusto, tutto apprezzabile ma capace di disorientare il lettore, che deve ad ogni capitolo rimettere in ordine i tasselli di un mosaico troppo grande e complesso.