Nel giugno del 1970 si spegneva Giuseppe Ungaretti, uno dei più grandi poeti italiani del Novecento. Figlio di emigranti italiani, nacque ad Alessandria d’Egitto dove fin da piccolo respirò l’atmosfera multietnica e culturale del luogo e le suggestioni ed illuminazioni poetiche che ritroveremo nelle sue prime opere. L’esperienza giovanile in Africa e più tardi quella intellettuale e raffinata all’Università della Sorbona a Parigi, fra i giovani delle Avanguardie artistiche e letterarie, lo porteranno ad abbandonare la tradizione stilistica e metrica classica per aderire pienamente alla nuova corrente letteraria dell’Ermetismo. L’uso di un linguaggio raffinato nella sua “brevitas”, di un “io” che si esprime liberamente attraverso il simbolismo della parola mette in contatto il lettore con la sua realtà interiore più profonda. Dopo la pubblicazione delle prime raccolte poetiche che gli diedero grande notorietà, negli anni il poeta elaborò una scrittura meno “criptica”, più articolata e modellata sulla tradizione della letteratura italiana. La raccolta “Il dolore”, fatta di liriche scritte tra il 1937 e il 1946, ne è un esempio ed il tema centrale della sofferenza che tocca tutti gli uomini sia nel privato, sia nella sfera collettiva, riporta al pensiero dei grandi come Leopardi, Manzoni e Verga. Il solo modo per attenuare questa sofferenza, secondo il poeta, è quello di essere solidali con gli altri esseri umani. La lirica “Non gridate più” scritta nell’immediato dopoguerra colpisce particolarmente per la sua drammaticità esistenziale:
NON GRIDATE PIÙ
Cessate di uccidere i morti/non gridate più, non gridate/se li volete ancora udire,/se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,/non fanno più rumore/del crescere dell’erba,/lieta dove non passa l’uomo.
Il 19 Luglio 1943 i tedeschi bombardarono gli scali ferroviari di San Lorenzo e dello snodo sud-est di Roma. Morirono drammaticamente nel popoloso quartiere circa tremila persone e fu distrutto il vicino cimitero del Verano. Al Papa subito accorso una folla immensa gridava “Pace”, “Pace Santità” ed insieme davanti alla Basilica di San Lorenzo recitarono il De Profundis per i morti. L’evento colpì Giuseppe Ungaretti per il dolore che generò e per la profanazione di un simbolo della città come il Verano. Con questa lirica il poeta si rivolge agli uomini sopravvissuti a quell’immane tragedia e li invita ad abbattere le barriere che li dividono dai morti, ad ascoltare la loro voce. Per farlo devono smettere di “gridare”, abbandonare la violenza e la sopraffazione dei più deboli, non funestare il mondo con l’odio di parte e le divisioni politiche. Queste grida piene di rabbia e di rancore coprono le flebili voci dei morti che invocano pace, rendendo inutile il loro sacrificio. L’appello è di non calpestare, ma custodire la memoria, per ascoltare l’impercettibile sussurro di chi non c’è più: i morti indicano a chi è rimasto la via della salvezza. I vivi alzano barbaramente la voce, i morti, tacendo, pronunciano parole di pietà e benevolenza che possono ridare un po’ di dignità perduta e veicolare pace.
In questo particolare momento storico, considerando quanto è avvenuto durante la pandemia del Covid-19, la voce di Ungaretti impone di considerare i tanti morti, il dolore di chi ha perso i propri cari, le sofferenze e la solitudine degli ammalati, il senso di abbandono di chi non ha più famiglia, amici, lavoro. Ci aspetta un lungo tempo di ricostruzione come nel dopoguerra; l’imperativo categorico è di non dimenticare le vittime e trovare forza d’animo ed intelligenza pratica per creare un’epoca nuova dove siano salvaguardati il diritto alla salute, allo studio, al lavoro. È compito dei Governi di tutta Europa e del mondo affrontare questa nuova sfida per non rendere sterile il sacrificio per i fatti avvenuti. È il momento di creare una società solidale basata sui valori etici di rispetto della persona e della salvaguardia dell’ambiente, anteponendoli alla logica del profitto. L’emergenza pandemia va trasformata in opportunità di crescita, non solo economica, ma anche sociale ponendo attenzione alle fasce più deboli che sono state maggiormente colpite e penalizzate. Le nuove generazioni devono custodire la memoria di tanti defunti che rappresentavano la storia e la tradizione dei territori, perché dimenticare significa non avere più maestri.
A cinquant’anni dalla morte, la voce di Ungaretti è quella di un maestro a guida di una società che ha un’impellente necessità di memoria. Senza maestri si è condannati al pensiero unico e all’omologazione. Non vi saranno energie vitali e liberatorie in grado di trascinare il nuovo che inesorabilmente avanza, che sappiano sfidare la mediocrità della vita rassegnata e fiaccata dal quotidiano. Il passato ha una sua forza attuale, vive e condiziona ciascuno di noi e ciascuna generazione.