Ieri è stato diffuso il Rapporto 2020 della Commissione UE sulla Blue Economy, contenente i dati di sintesi del 2018. Il fatturato complessivo del settore risulta superiore a 750 miliardi di euro, con un GVA (Gross Value Added) di 218 miliardi e utili per 94. Gli occupati regolari sono 5 milioni, con una crescita del 15% tra il 2009 e il 2018.
Spagna, Germania, Italia e Francia controllano il 58% del settore in Europa. Ma Irlanda, Portogallo e Malta hanno avuto un tasso di crescita del 50% negli ultimi 10 anni. Seguiti da presso da Belgio, Polonia e Svezia.
La Commissione lancia poi un forte allarme ambientalista. Il cambiamento climatico, anche a causa del connesso innalzamento del livello del mare, rappresenta un pericolo crescente. Senza interventi di mitigazione e di protezione delle coste, l’Europa potrebbe subire danni per 800 miliardi di euro all’anno, laddove il costo degli interventi preventivi viene stimato in 2 miliardi annui.
Il Rapporto, però, soffrirebbe “di un’ormai cronica sottovalutazione e dell’esclusione di intere filiere di economia blue dal computo complessivo anche relativo all’impatto sul PIL”. A dirlo è Giulio Sapelli, Presidente del centro studi italiano BlueMonitorLab.
In particolare, risulterebbe sottostimato il ruolo dei porti e il loro impatto diretto e indiretto sulle economie nazionali. Il turismo marittimo non riconducibile alla pura attività alberghiera. La cantieristica navale. Ma anche logistica, approvvigionamenti, ricerca e difesa dell’ambiente che – sempre secondo BlueMonitorLab – sarebbero proposti nel Rapporto Ue più come enunciazioni che come effettivi driver di fatturato e occupazione. Per avere un quadro complessivo più attendibile, andrebbero pertanto completate le caselle vuote relative alle connessioni fra Blue Economy e il sistema economico e produttivo complessivo dei Paesi europei.
