Fuochi di rivolta infiammano molte città degli Stati Uniti. Come si sa, il video dell’arresto brutale di George Floyd, ripreso da passanti che chiedevano allo spietato poliziotto di togliere il ginocchio dal collo del malcapitato quarantaseienne di Minneapolis che implorava pietà, ha fatto il giro del mondo. Molte comunità di afroamericani (e non solo) si sono riversate subito in strada protestando con veemenza.
Per motivi di sicurezza in molte città è stato imposto il coprifuoco a partire dalle 20,00. Il poliziotto responsabile delle violenze, Derek Chauvin, è stato arrestato con l’accusa di omicidio di terzo grado (dovrebbe corrispondere al nostro omicidio colposo e rischia vent’anni di carcere). Ma pare che questo non sia servito a placare la comunità nera, accecata da una rabbia ormai atavica.
Scontri, roghi, violenze, stanno sconvolgendo Minneapolis già da cinque giorni e le proteste si sono allargate a tutto il Paese. È intervenuta finanche la Guardia Nazionale ed a protezione della Casa Bianca si sono schierati i Servizi Segreti che hanno fermato i manifestanti fuori la cancellata esterna. Per motivi di sicurezza la residenza presidenziale è stata messa in lockdown. Trump che era a Cape Canaveral, ha stigmatizzato l’accaduto via Twitter avvertendo i manifestanti che “sarebbero stati accolti dai cani più feroci e dalle armi più minacciose”.
La situazione sembra fuori controllo e l’intervento dell’esercito, per ora solo a difesa di banche, supermercati, uffici pubblici e farmacie (per evitare razzie di oppiacei), ha solo esacerbato gli animi. Già due morti tra i manifestanti, oltre a centinaia di feriti e di arresti.
Più che una protesta finalizzata ad ottenere qualcosa di preciso, si ha l’impressione che il fuoco arda soprattutto per rabbia e frustrazione. Frustrazione di una comunità che puntualmente si ritrova in piazza a piangere i suoi morti.
Non solo George Floyd, in Minnesota. Poco prima Ahmaud Arbery, 25 anni, in Georgia e Brionna Taylor, 26 anni, in Kentucky, uccisi negli ultimi tre mesi da poliziotti o da ex poliziotti e vigilantes bianchi. Lo stesso governatore, democratico e bianco, del Kentucky, Andy Beshear, ha dichiarato pubblicamente: “Non posso pretendere di capire la frustrazione delle persone e il loro fardello davanti a secoli di diseguaglianza, di essere trattati e giudicati diversamente”.
Gli USA presentano il loro volto peggiore. Che non è probabilmente, come ci hanno abituato a credere i benpensanti europei, il capitalismo imperialista, ma la componente discriminatoria nei confronti degli afroamericani (neanche tanto nascosta, a dire il vero) in alcuni strati della società statunitense.
Le lacerazioni del passato schiavista con inesorabile puntualità tornano a palesarsi e le proteste di questi giorni non saranno le ultime. Un paese ricco, potente e democratico che dopo quattro secoli di storia, non ha ancora sciolto la color line del razzismo strisciante nei confronti dei discendenti degli schiavi deportati.
La più grande democrazia del mondo alimentata da un melting pot straordinario formato da anglosassoni, cinesi, italiani, latinos, russi, irlandesi ed ebrei da tutto il mondo, che tiene ai margini della società decine di milioni di persone dalla pelle nera. Ed al contempo milioni di afroamericani che sembrano essersi autoreclusi in un’enclave linguistica, culturale e sociale che sfocia in una autoreferenzialità senza sbocchi.
È dai tempi di Martin Luther King che non si vede un leader politico di colore di caratura adeguata alla complessità dei problemi. Del resto, anche il presidente Obama non si è mai caratterizzato per essere un leader degli afroamericani, ma ha sempre cercato di dimostrarsi bravo nonostante fosse un mezzo black (gli hanno sempre rinfacciato le sue origini keniote). La stessa middle class di colore, che pure esiste, non riesce ad essere classe dirigente, preferendo recidere i legami col ghetto ed accreditarsi agli occhi dei wasp come innocua.
E così il ghetto diventa sempre più ghetto, fornendo manovalanza a basso costo alle gang dedite alla criminalità ed allo spaccio. E i bianchi sempre più spaventati si ritirano nelle loro villette suburbane, armandosi sempre di più e chiedendo alla polizia di liberare le strade dalle bande dei pericolosi malviventi coloured.
Un meccanismo perverso che pare alimentarsi senza fine, un vero e proprio cane che si morde la coda, dove la mancanza di integrazione genera un aumento esponenziale della discriminazione razziale. Il presidente Trump fa quello per cui è stato eletto: addita come criminale la mano nera di chi lancia il sasso per sfondare una vetrina, ma non si interroga sulla rabbia feroce che la anima.
Questa rabbia, unita alla catastrofica gestione dell’emergenza coronavirus che per forza di cose ha colpito maggiormente le minoranze etniche escluse dalla sanità privata, accompagnerà gli Stati Uniti fino alle elezioni di novembre.
Ci dovranno fare i conti sia Trump, che insieme ai repubblicani fatica a fare breccia nelle minoranze etniche, sia i democratici con Joe Biden, che a volte danno per scontato il loro sostegno, ma spesso si ritrovano col fianco scoperto.
Le ferite non rimarginate prima o poi si riaprono, ancora più purulente.